di Federica Floriana Ilacqua
Internet è un dato di fatto. La sua esistenza, rivoluzionaria, catastrofica, miracolosa o funesta, comunque la si voglia considerare, è parte integrante della vita del 77%[1] della popolazione dei paesi economicamente più avanzati. Inutile discutere sul mondo precedente e sulle sue virtù; poco proficuo indugiare in considerazioni nostalgiche o anacronistiche. La realtà, innegabile quanto complessa e polisemica, è che il progresso tecnologico si è accompagnato alla crescita sociale e culturale della nostra civiltà, al punto da determinare un cambiamento epocale che nel giro di pochi decenni ha trasformato il modo di concepire i rapporti umani, ha modificato sostanzialmente la percezione del tempo, annullando le attese ed accelerando i ritmi di pressoché tutte le attività lavorative, ha cambiato il modo di fare economia, di fare società, di fare politica. Ha, in definitiva, introdotto e scolpito nella mentalità comune l’idea di ‘possibilità’ nel senso più ottimistico e lato del termine: non c’è nulla, nei più svariati campi, che internet non possa, che internet non sappia, che internet non conosca, e, di conseguenza, che internet non permetta.
Condannare questo fenomeno, che costituisce oggi l’essenza più concreta dello stadio raggiunto dalla nostra civiltà, non significa solo rinnegare un aspetto ineludibile della realtà attuale, né costituisce soltanto un vano tentativo di arrestare un fenomeno che si è già compiuto in maniera irreversibile. Significa, piuttosto, avere una visione miope del mondo, non riuscire a cogliere la varietà di stimoli e dinamiche impreviste che ne dominano la vita e il continuo rinnovamento, non comprendere l’incerto equilibrio che attraverso internet collega i mondi, un tempo distanti, della politica, dell’economia, della società, della vita quotidiana, dell’ecologia, della cucina, delle opinioni, alla gente comune.
Vi è però un limite da rispettare, affinché i benefici siano, a lungo termine, maggiori degli svantaggi. Perché si sa, dall’assoluto bene, dialetticamente, si può passare al male estremo. E non è il caso di fare appello, a tal proposito, ad un catastrofismo di tipo mediatico o anacronistico che veda nella tecnologia la possibile rovina di ciò che il mondo era prima. Il mondo del passato, quello della carta e della penna, quello dei rapporti personali diretti, quello della chiusura dei confini nazionali, quello della politica fatta solo tra i politici e al massimo con qualche dibattito intellettuale a fare da sfondo, non esiste più. E’ già andato in rovina, è già stato distrutto. Esiste qualcosa di diverso, forse di migliore, forse di peggiore, non è questo ad avere importanza. Il cambiamento è avvenuto, ed è irreversibile, perché non ha cambiato un aspetto storico, contingente, della vita comune; non ha introdotto una novità scarsamente funzionale, economicamente irrilevante, criticata e poco vissuta. Ha cambiato la mentalità della gente. Ne ha rivoluzionato l’idea stessa della vita. La sua influenza l’ha esercitata nell’umanità della persona, nello spirito, nella mente, non sulla realtà materiale, non sulle cose. Non è stata una rivoluzione tecnologica, è stata una rivoluzione umana, rispetto alla quale l’avanzamento tecnologico è stato solo lo strumento, la spinta iniziale, il mezzo, non il fine. E cambiamenti di questo genere non possono essere rinnegati. La Rivoluzione Francese ebbe una fine, e fu seguita da una nuova monarchia, e dovunque, in Europa, vennero restaurati i vecchi regimi. Ma la scintilla, la fiamma, l’ardore di libertà, queste erano cose che non potevano essere cancellate. Non erano scritte su un muro o un pezzo di carta, non erano rappresentate da un monumento, da un palazzo, da una bandiera. Erano libere, erano ormai patrimonio dell’umanità. E lo sono rimaste, nonostante tutti i tentativi di arresto. Non avrebbe molto senso, quindi, rimpiangere il passato o rinnegare il presente. C’è però un lavoro che, in questo contesto, assume un grande significato: il lavoro di consapevolezza.
C’è stata una generazione di uomini che ha assistito alla nascita del computer e a quella di internet. Alcuni di questi uomini, poi, vi hanno partecipato in prima persona, studiando, mentre iniziavano a circolare, le prime tecnologie, e cercando di adattarle al loro campo di lavoro. Lo hanno fatto i giuristi, gli ingegneri, gli economisti, ognuno di loro fissando delle regole, sforzandosi di comprendere ciò che stava accadendo e di costruire un patrimonio di conoscenze in quel momento inesistenti ma necessarie. E l’esempio più evidente è forse dato dalla legislazione in materia, prima completamente assente, e da quel momento lentamente costruita. Di conseguenza, questa generazione di uomini ha avuto la consapevolezza di internet, ha percepito il computer e le sue potenzialità come una propria conquista, una conquista dell’uomo. Così fu quando l’uomo primitivo scoprì il fuoco, così per le grandi invenzioni che hanno rivoluzionato la nostra civiltà. Un grande uomo ha una grande intuizione, e gli altri si adoperano a comprenderla e adattarla alla propria attività, cercando eventualmente anche di migliorarne l’applicazione pratica. Con internet questo è accaduto diversamente. Alcuni uomini hanno conquistato la ‘macchina’, è vero, l’hanno sentita come il risultato della loro ricerca intellettuale, del loro ingegno. E anche chi in questo sforzo non si è applicato, ha comunque assistito al cambiamento, lo ha vissuto, ha saputo riconoscerlo come un traguardo della mente umana. E per chi è venuto dopo? Cosa è successo?
La risposta è anche la chiave di interpretazione della società attuale, di quella nascente, di quella che trova le sue germoglianti caratteristiche nei cosiddetti “nativi digitali”, ovvero in coloro che sono nati e stanno crescendo nell’era di internet. Per loro internet non è una conquista, è un semplice dato di fatto. Il computer non è un oggetto inventato dall’uomo, è un elemento comune della loro realtà fenomenica, un po’ come un albero, un libro, una mela. E non esiste neppure un rapporto di superiorità uomo-oggetto che valga a recuperare quel senso di conquista normalmente provato dall’uomo, nella storia, nei confronti delle sue invenzioni: internet sa molte più cose del semplice utente che se ne serve, possiede un patrimonio di conoscenze infinitamente più vasto e dettagliato, è estremamente più veloce, potenzialmente più efficace, addirittura indispensabile per qualsiasi lavoro di ricerca o di scrittura. Il computer ha molte più funzionalità, riesce a collegarsi con il mondo, a comunicare, a ricevere e inviare informazioni, e lo fa attraverso meccanismi che ai più sono completamente ignoti. Facebook esiste, tutto qui. Non si sa come, perché, come funzioni, come ci consenta di far vedere ad una persona che si trova a Tokio la nostra foto davanti al Colosseo, come ci consenta di inviare ad un amico, che lo riceve identico e lo legge, un testo che abbiamo trasposto dalla nostra mente in uno schermo, attraverso una tastiera. Un’email. I nativi digitali non hanno un loro concetto di email. L’email esiste e basta, non c’è da chiedersi come mai, in che modo funzioni, domande di questo genere fatte ad un qualsiasi adolescente desterebbero risate o titubanza, e lo stesso potrebbe dirsi di mille altri esempi.
In questo modo internet, il computer, i social network, i servizi di posta elettronica, così come tutte le funzionalità connesse alle nuove tecnologie, non sono più un mezzo a servizio della mente umana, ideatrice e conquistatrice di novità, non sono più l’oggetto, la cosa, l’utensile per procurarsi da mangiare o la lancia per difendersi dai pericoli fuori dalla caverna, la barca per attraversare il mare, il cannocchiale per guardare lontano, la bussola per orientarsi: sono, piuttosto, realtà quasi metafisiche, riguardo alla cui esistenza non ci si chiede nulla, se non si è esperti del settore, studiosi o appassionati. Esistono, e sono potenti. Molto più di noi. Difficilmente un adolescente quando fa qualche gioco online o manda un’email, o semplicemente quando muove la freccetta del mouse sullo schermo, potrebbe pensare, o quantomeno possedere la consapevolezza, che quella cosa normalissima che è inviare il documento, muovere la freccia o far saltare Super Mario equivale ad applicare un algoritmo matematico elaborato da un uomo. E la mancanza di questa consapevolezza, considerabile del tutto banale e irrilevante, ha un suo prezzo: la fiducia. L’adolescente di oggi manca di fiducia rispetto a questa realtà in cui vive, ma che sconosce. E l’ignoranza dei meccanismi di funzionamento del mezzo rendono il mezzo stesso simile ad una divinità, ad una realtà trascendente, cosicché la cosa assume tutta una serie di valori di norma attribuiti alla persona. Cosicché i rapporti, quelli umani, finiscono per disperdersi, e l’apprendimento, quello umano, finisce per diventare pura ricerca telematica.
E se nessuno fosse capace di elaborare quell’algoritmo? L’email esiste perché qualcuno l’ha inventata, non si è inventata da sola. Come sarebbe il mondo se la consapevolezza nei confronti del computer venisse progressivamente scomparendo, insieme alla scomparsa della generazione degli “immigrati digitali”, dei “conquistatori della grande rete”? E può questa generale sfiducia, questo non riconoscimento delle potenzialità umane, essere considerato tra le cause dei problemi sociali più legati al mondo giovanile o, per certi ambiti, infantile, come eccessivo legame alle realtà virtuali, culto dell’apparenza e della pubblicità di sé, droga, alcol, bullismo, insicurezza, difficoltà nel dialogo familiare e non?
Se capiamo che internet è un mezzo e ne comprendiamo i meccanismi di funzionamento, allora possiamo sfruttarlo traendone dei benefici immensi. Me se permaniamo in uno stato di inerzia e accettazione passiva della tecnologia, se continuiamo, quindi, ad ignorare e a permettere che i più piccoli, gli ultimi arrivati, ignorino cosa c’è dietro lo schermo magico e come funziona, rischiamo che le generazioni future siano prive di quella fiducia nelle proprie facoltà mentali che ha reso migliore la civiltà umana, paradossalmente schiacciata dalla più grande delle sue conquiste.
[1] Unione internazionale delle telecomunicazioni (ITU), 27 febbraio 2013