È venuto a mancare il Prof. Renato Borruso

prof_borruso Si è spento ieri Renato Borruso, docente della nostra Università per oltre vent’anni, uno dei padri dell’Informatica Giuridica del nostro Paese, magistrato autore di importanti sentenze, caro amico e maestro.

Avremo modo di commemorarlo nelle nostre pagine più diffusamente nei prossimi giorni, ma intanto volevamo darvi questa triste notizia e ricordarlo mettendo in linea una sua lezione di qualche anno fa in podcast.

Gianluigi Ciacci

 

A questo link una sua breve biografia
http://it.wikipedia.org/wiki/Renato_Borruso

 

Tecnlologia etica nell’era del cyborg

di Rosalba Famà

Il cyborg è quasi realtà. Recenti progetti della National Science Foundation (USA) stanno basando i loro studi sulla creazione dell’organismo cibernetico, un complesso sistema uomo-macchina per l’”improvement” tecnologico dell’uomo.

Ma cosa vuol dire, antropologicamente, questo tentativo?

Nell’opera del Neuroscienziato-teologo Paolo Benanti “The cyborg:corpo e corporeità nell’epoca del post-umano”, lo scienziato ci mostra come lo strumento tecnologico sia arrivato ad essere assunto come strumento di immortalità, l’immortalità del cyborg sembrerebbe promettere la sostituzione di ogni tipo di trascendenza.

Il cyborg non sarebbe altro che l’epifenomeno tecnologico dei movimenti del post-umano e trans-umano, caratterizzati dall’idea di un’immortalità tecnologicamente realizzabile.

In altre parole, la tecnologia, da sempre considerata come un ampliamento alle facoltà umane (“enhancement”), sembrerebbe ora uno strumento che permette un ampliamento umano anche temporale , oltre i confini di durata di una singola vita, l’immortalità.

L’agenzia governativa per lo sviluppo delle tecnologie del governo degli Stati Uniti d’America vuole realizzare il potenziamento umano, utilizzando devices nanotecnologici integrati nel sistema biologico del corpo umano. In un tale complesso uomo-macchina nascerebbero stati emotivi e cognitivi sconosciuti. La macchina resa umana e l’uomo reso macchina. Tutto possibile attraverso i processi informatici: la vita non è considerata altro che la capacità di conservare e elaborare informazioni, indistinguibile dagli apparati tecnologici.

Il cyborg può essere pensato come l’interfaccia tra persona e tecnologia.

L’”enhancement” dell’uomo fa sorgere numerose questioni antropologiche ed etiche e ancora una volta porta a chiederci cosa sia la vita.

Questo tipo di “improvment” è espressione delle correnti del post-umano, simbolo della crisi del senso e del valore umano, è lo strumento con cui l’uomo tenta un’evoluzione tecnologicamente guidata, abbandonando però il senso della sua esistenza. Il problema investe tutto il valore che si riconosce alla vita umana.

Il discernimento etico sul cyborg vede la necessità di cogliere il valore del corpo e della corporeità per l’esistenza umana” dice Paolo Benanti,  e continua “Ciò che va colto è il ‘telos’(la fine)”, il valore della sua finitezza temporale.

Solo tenendo ferme alcune riflessioni antropologiche sarà possibile fornire delle coordinate basilari per orientare l’innovazione tecnologica. Le tecnologie cyborg sono positivamente valutate solo se improntate ad un progresso dal volto umano, un sincero impegno dei singoli e delle istituzioni nella ricerca del bene comune.

Per questo le ricerche del cyborg e delle tecnologie richiedono una gestione internazionale di tipo politico-economico.

La governance è lo spazio migliore dove tali riflessioni devono divenire forze efficaci per guidare l’innovazione tecnologica come autentica fonte di sviluppo umano.

Rosalba Famà

 

Bibliografia
 
Le considerazioni sono state tratte da una Lectio Magistralis tenuta da Paolo Benanti a cui ho assistito durante un corso di politica etica nel luglio 2013 a Camaldoli. Paolo Benanti dopo gli studi in ingegneria ha acquisito una formazione etico-politica presso la Pontificia Università Gregoriana e presso la Georgetown University a Washington D.C. (USA) e Kennedy institute of ethics. Collabora con “American Journal of Bioethics”. Tra le sue pubblicazioni : The cyborg:corpo e corporeità nell’epoca del post-umano. Prospettive antropologiche e riflessioni etiche per un discernimento morale.

La net-generation e i nativi digitali: conquistatori o conquistati?

di Federica Floriana Ilacqua 

Internet è un dato di fatto. La sua esistenza, rivoluzionaria, catastrofica, miracolosa o funesta, comunque la si voglia considerare, è parte integrante della vita del 77%[1] della popolazione dei paesi economicamente più avanzati. Inutile discutere sul mondo precedente e sulle sue virtù; poco proficuo indugiare in considerazioni nostalgiche o anacronistiche. La realtà, innegabile quanto complessa e polisemica, è che il progresso tecnologico si è accompagnato alla crescita sociale e culturale della nostra civiltà, al punto da determinare un cambiamento epocale che nel giro di pochi decenni ha trasformato il modo di concepire i rapporti umani, ha modificato sostanzialmente la percezione del tempo, annullando le attese ed accelerando i ritmi di pressoché tutte le attività lavorative, ha cambiato il modo di fare economia, di fare società, di fare politica. Ha, in definitiva, introdotto e scolpito nella mentalità comune l’idea di ‘possibilità’ nel senso più ottimistico e lato del termine: non c’è nulla, nei più svariati campi, che internet non possa, che internet non sappia, che internet non conosca, e, di conseguenza, che internet non permetta.

Condannare questo fenomeno, che costituisce oggi l’essenza più concreta dello stadio raggiunto dalla nostra civiltà, non significa solo rinnegare un aspetto ineludibile della realtà attuale, né costituisce soltanto un vano tentativo di arrestare un fenomeno che si è già compiuto in maniera irreversibile. Significa, piuttosto, avere una visione miope del mondo, non riuscire a cogliere la varietà di stimoli e dinamiche impreviste che ne dominano la vita e il continuo rinnovamento, non comprendere l’incerto equilibrio che attraverso internet collega i mondi, un tempo distanti, della politica, dell’economia, della società, della vita quotidiana, dell’ecologia, della cucina, delle opinioni, alla gente comune.

Vi è però un limite da rispettare, affinché i benefici siano, a lungo termine, maggiori degli svantaggi. Perché si sa, dall’assoluto bene, dialetticamente, si può passare al male estremo. E non è il caso di fare appello, a tal proposito, ad un catastrofismo di tipo mediatico o anacronistico che veda nella tecnologia la possibile rovina di ciò che il mondo era prima. Il mondo del passato, quello della carta e della penna, quello dei rapporti personali diretti, quello della chiusura dei confini nazionali, quello della politica fatta solo tra i politici e al massimo con qualche dibattito intellettuale a fare da sfondo, non esiste più. E’ già andato in rovina, è già stato distrutto. Esiste qualcosa di diverso, forse di migliore, forse di peggiore, non è questo ad avere importanza. Il cambiamento è avvenuto, ed è irreversibile, perché non ha cambiato un aspetto storico, contingente, della vita comune; non ha introdotto una novità scarsamente funzionale, economicamente irrilevante, criticata e poco vissuta. Ha cambiato la mentalità della gente. Ne ha rivoluzionato l’idea stessa della vita. La sua influenza l’ha esercitata nell’umanità della persona, nello spirito, nella mente, non sulla realtà materiale, non sulle cose. Non è stata una rivoluzione tecnologica, è stata una rivoluzione umana, rispetto alla quale l’avanzamento tecnologico è stato solo lo strumento, la spinta iniziale, il mezzo, non il fine. E cambiamenti di questo genere non possono essere rinnegati. La Rivoluzione Francese ebbe una fine, e fu seguita da una nuova monarchia, e dovunque, in Europa, vennero restaurati i vecchi regimi. Ma la scintilla, la fiamma, l’ardore di libertà, queste erano cose che non potevano essere cancellate. Non erano scritte su un muro o un pezzo di carta, non erano rappresentate da un monumento, da un palazzo, da una bandiera. Erano libere, erano ormai patrimonio dell’umanità. E lo sono rimaste, nonostante tutti i tentativi di arresto. Non avrebbe molto senso, quindi, rimpiangere il passato o rinnegare il presente. C’è però un lavoro che, in questo contesto, assume un grande significato: il lavoro di consapevolezza.

C’è stata una generazione di uomini che ha assistito alla nascita del computer e a quella di internet. Alcuni di questi uomini, poi, vi hanno partecipato in prima persona, studiando, mentre iniziavano a circolare, le prime tecnologie, e cercando di adattarle al loro campo di lavoro. Lo hanno fatto i giuristi, gli ingegneri, gli economisti, ognuno di loro fissando delle regole, sforzandosi di comprendere ciò che stava accadendo e di costruire un patrimonio di conoscenze in quel momento inesistenti ma necessarie. E l’esempio più evidente è forse dato dalla legislazione in materia, prima completamente assente, e da quel momento lentamente costruita. Di conseguenza, questa generazione di uomini ha avuto la consapevolezza di internet, ha percepito il computer e le sue potenzialità come una propria conquista, una conquista dell’uomo. Così fu quando l’uomo primitivo scoprì il fuoco, così per le grandi invenzioni che hanno rivoluzionato la nostra civiltà. Un grande uomo ha una grande intuizione, e gli altri si adoperano a comprenderla e adattarla alla propria attività, cercando eventualmente anche di migliorarne l’applicazione pratica. Con internet questo è accaduto diversamente. Alcuni uomini hanno conquistato la ‘macchina’, è vero, l’hanno sentita come il risultato della loro ricerca intellettuale, del loro ingegno. E anche chi in questo sforzo non si è applicato, ha comunque assistito al cambiamento, lo ha vissuto, ha saputo riconoscerlo come un traguardo della mente umana. E per chi è venuto dopo? Cosa è successo?

La risposta è anche la chiave di interpretazione della società attuale, di quella nascente, di quella che trova le sue germoglianti caratteristiche nei cosiddetti “nativi digitali”, ovvero in coloro che sono nati e stanno crescendo nell’era di internet. Per loro internet non è una conquista, è un semplice dato di fatto. Il computer non è un oggetto inventato dall’uomo, è un elemento comune della loro realtà fenomenica, un po’ come un albero, un libro, una mela. E non esiste neppure un rapporto di superiorità uomo-oggetto che valga a recuperare quel senso di conquista normalmente provato dall’uomo, nella storia, nei confronti delle sue invenzioni: internet sa molte più cose del semplice utente che se ne serve, possiede un patrimonio di conoscenze infinitamente più vasto e dettagliato, è estremamente più veloce, potenzialmente più efficace, addirittura indispensabile per qualsiasi lavoro di ricerca o di scrittura. Il computer ha molte più funzionalità, riesce a collegarsi con il mondo, a comunicare, a ricevere e inviare informazioni, e lo fa attraverso meccanismi che ai più sono completamente ignoti. Facebook esiste, tutto qui. Non si sa come, perché, come funzioni, come ci consenta di far vedere ad una persona che si trova a Tokio la nostra foto davanti al Colosseo, come ci consenta di inviare ad un amico, che lo riceve identico e lo legge, un testo che abbiamo trasposto dalla nostra mente in uno schermo, attraverso una tastiera. Un’email. I nativi digitali non hanno un loro concetto di email. L’email esiste e basta, non c’è da chiedersi come mai, in che modo funzioni, domande di questo genere fatte ad un qualsiasi adolescente desterebbero risate o titubanza, e lo stesso potrebbe dirsi di mille altri esempi.

In questo modo internet, il computer, i social network, i servizi di posta elettronica, così come tutte le funzionalità connesse alle nuove tecnologie, non sono più un mezzo a servizio della mente umana, ideatrice e conquistatrice di novità, non sono più l’oggetto, la cosa, l’utensile per procurarsi da mangiare o la lancia per difendersi dai pericoli fuori dalla caverna, la barca per attraversare il mare, il cannocchiale per guardare lontano, la bussola per orientarsi: sono, piuttosto, realtà quasi metafisiche, riguardo alla cui esistenza non ci si chiede nulla, se non si è esperti del settore, studiosi o appassionati. Esistono, e sono potenti. Molto più di noi. Difficilmente un adolescente quando fa qualche gioco online o manda un’email, o semplicemente quando muove la freccetta del mouse sullo schermo, potrebbe pensare, o quantomeno possedere la consapevolezza, che quella cosa normalissima che è inviare il documento, muovere la freccia o far saltare Super Mario equivale ad applicare un algoritmo matematico elaborato da un uomo. E la mancanza di questa consapevolezza, considerabile del tutto banale e irrilevante, ha un suo prezzo: la fiducia. L’adolescente di oggi manca di fiducia rispetto a questa realtà in cui vive, ma che sconosce. E l’ignoranza dei meccanismi di funzionamento del mezzo rendono il mezzo stesso simile ad una divinità, ad una realtà trascendente, cosicché la cosa assume tutta una serie di valori di norma attribuiti alla persona. Cosicché i rapporti, quelli umani, finiscono per disperdersi, e l’apprendimento, quello umano, finisce per diventare pura ricerca telematica.

E se nessuno fosse capace di elaborare quell’algoritmo? L’email esiste perché qualcuno l’ha inventata, non si è inventata da sola. Come sarebbe il mondo se la consapevolezza nei confronti del computer venisse progressivamente scomparendo, insieme alla scomparsa della generazione degli “immigrati digitali”, dei “conquistatori della grande rete”? E può questa generale sfiducia, questo non riconoscimento delle potenzialità umane, essere considerato tra le cause dei problemi sociali più legati al mondo giovanile o, per certi ambiti, infantile, come eccessivo legame alle realtà virtuali, culto dell’apparenza e della pubblicità di sé, droga, alcol, bullismo, insicurezza, difficoltà nel dialogo familiare e non?

Se capiamo che internet è un mezzo e ne comprendiamo i meccanismi di funzionamento, allora possiamo sfruttarlo traendone dei benefici immensi. Me se permaniamo in uno stato di inerzia e accettazione passiva della tecnologia, se continuiamo, quindi, ad ignorare e a permettere che i più piccoli, gli ultimi arrivati, ignorino cosa c’è dietro lo schermo magico e come funziona, rischiamo che le generazioni future siano prive di quella fiducia nelle proprie facoltà mentali che ha reso migliore la civiltà umana, paradossalmente schiacciata dalla più grande delle sue conquiste.


[1] Unione internazionale delle telecomunicazioni (ITU), 27 febbraio 2013

Privacy, libertà e 1984

In rete essendoci più libertà, c’è meno protezione e meno tutela della privacy. Ciò potrebbe essere considerato esito di un vera e propria democratizzazione, ma nel contempo può leggersi come una negazione, ed una strumentalizzazione, dello stesso principio di democrazia dato che, una società sempre più controllata, correrebbe il rischio di esondare oltre gli argini limitativi del potere, trasformandosi in quel regime tanto temuto da Orwell e descritto in “1984″…. In questo contesto, il prezzo da pagare per una simile libertà, assume un valore molto elevato, poiché implica paradossalmente una violazione della stessa. Mi chiedo, se questo sistema, che attualmente si dispiega in forme quasi anarchiche, possa essere realmente razionalizzato, attraverso normative concrete… e se ciò è possibile, perché non è stato realizzato in precedenza?

Marianna Di Campli

Contratto point and click: il click vale sempre come consenso?

Il contratto point and click costituisce la modalità maggiormente utilizzata nella prassi del commercio elettronico per la conclusione dei contratti online.

In base al principio di libertà delle forme, previsto dal nostro ordinamento, il consenso delle parti alla conclusione del contratto può essere manifestato con qualsiasi forma, anche per fatti concludenti, salvi i casi in cui è richiesta la forma scritta ex 1350 c.c.

Così nell’ambito dei contratti telematici la manifestazione di volontà può essere espressa anche inserendo il numero della propria carta di credito o ancora con un semplice click.

Con la modalità point and click l’acquirente, attraverso un comportamento concludente, che si estrinseca cliccando con il mouse sul bottoncino col “carrello”, il cosiddetto pulsante negoziale virtuale, esprime la sua volontà di concludere il contratto e a seguito di un click si realizza l’incontro delle volontà delle parti che porta alla conclusione del contratto, rendendolo efficace.

Il click vale, dunque, come consenso.

Ovviamente è necessario che il venditore renda note all’acquirente le clausole negoziali e le condizioni generali di contratto e questo requisito può essere soddisfatto sia riportandole nel testo contrattuale, ma è anche possibile che queste siano contenute in altre schermate del sito o in pagine di secondo livello, purché il link sia posto in risalto e sia effettivamente accessibile.

Ma che dire in relazione alle clausole vessatorie? Il semplice click può essere effettivamente considerato come manifestazione di volontà?

Sulla vicenda è di recente intervenuto il giudice del Tribunale di Catanzaro con la sentenza n. 68/2011 del 18 aprile 2012, depositata il 30 aprile 2012.

Le clausole vessatorie sono quelle clausole che comportano una particolare sproporzione di diritti e obblighi a carico di chi sottoscrive il contratto, sancendo un vantaggio, invece, nei confronti di chi lo ha predisposto. Il codice civile non individua un numerus clausus di clausole da considerare vessatorie, ma le indica, in modo generale, all’art. 1341, 2° comma: sono quelle condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria. Sempre il 2° comma dell’articolo in esame prevede che tali clausole siano specificatamente approvate per iscritto. Si tratta della famosa seconda firma che viene inserita nei contratti, in cui normalmente viene apposta la clausola che comincia con la dicitura “Ai sensi e per gli effetti degli artt. 1341 seguenti c.c., le parti approvano specificatamente i seguenti articoli” eccetera.

Alla luce di tale disposizione il Tribunale di Catanzaro, con una sentenza che costituisce, in Italia, un’assoluta novità in materia (una pronuncia simile si è avuta in Francia ad opera della Corte d’appello di Pau, relativa alle condizioni generali di adesione al popolare social network Facebook), ha sancito l’invalidità delle clausole vessatorie, quando il consenso ad esse sia prestato attraverso un semplice click.

Per il giudice di Catanzaro, dunque, sebbene i contratti conclusi online siano normalmente validi attraverso il click del mouse, non è così nel caso di clausole vessatorie in essi contenute. Una sottoscrizione tramite il web non è, quindi, sufficiente a supplire la forma scritta richiesta dalla legge (salvo che non sia effettuata con firma digitale), con la conseguenza, a livello pratico, che il venditore non potrà più opporre alcuna di tali clausole al consumatore, benché questi sia stato regolarmente informato e le clausole mostrate sul sito o fatte approvare col click di accettazione.

Al venditore online, come escamotage volto a superare  il problema dell’accettazione scritta delle clausole in questione, non rimarrebbe altra possibilità che far sottoscrivere un testo contrattuale, invitando l’utente a scaricare un form e a stamparlo, a sottoscriverlo e inviarlo per posta (o anticipato per fax) al venditore. In assenza di dispositivi di firma digitale, solo in questo modo il contratto avrebbe efficacia anche per le clausole vessatorie in esso contenute.

Benedetta Di Noto

“Internet matters! The net’s sweeping impact on growth, jobs, and prosperity”

“.. se una società tecnologicamente avanzata può essere anche una società ingiusta, una società le cui strutture siano inefficienti è sicuramente ingiusta, perché il disordine, la disorganizzazione, l’ignoranza, generano quasi sempre miseria, disuguaglianze, soprusi, a tutto danno dei più deboli e indifesi.” (R. Borruso, L’informatica per il giurista)

Forte di questa consapevolezza mi sono trovato, quasi per caso ad assistere, su Rai3, ad una edizione speciale del programma Agorà, mandata in onda in occasione della morte di Steve Jobs, lo scorso 6 ottobre.

La tipologia dei temi trattati e la levatura culturale degli ospiti intervenuti, tra i quali cito Vittorio Zucconi (direttore di Repubblica.it), Walter Veltroni, Riccardo Luna, (fondatore di Wired Italia) Carlo Massarini (conduttore della trasmissione Cult Mr Fantasy), Luca Sofri (direttore de Il Post), hanno immediatamente suscitato in me un vivo interesse.

Il filo conduttore dell’intera puntata, durata quasi 3 ore, è stato essenzialmente il dibattito sulla figura di Jobs, e sulla sua capacità di cambiare il mondo per mezzo delle proprie innovative creazioni. Un dibattito che ha assunto a tratti carattere biografico, narrando per intero le vicende della “favola americana” vissuta dall’uomo di San Francisco, ma che è sfociato nel finale in una serie di considerazioni sul ruolo del computer, ed in particolare di internet e del web, nello sviluppo economico, culturale, sociale e politico, nel nostro paese e nel mondo. Ed è proprio su questa seconda parte che si concentrerà la mia attenzione.

Non si può tuttavia prescindere, a questo punto, dall’affrontare una riflessione su quello che è stato il ruolo rivoluzionario del computer nella vita di tutti, a cominciare da quelle che personalmente considero le attività di base esercitabili con un computer: si pensi ad esempio alle funzioni di scrittura o di ricerca per mezzo di Internet, passando per gli incredibili progressi effettuati in termini di comunicazione, grazie ai quali l’uomo vede ampliati in modo praticamente illimitato i suoi orizzonti e le sue libertà. Un uso consapevole del computer esalta la fantasia, la cultura, l’iniziativa, la produttività, la responsabilità dell’individuo, stimolandolo a lavorare in “équipe” e quindi a socializzare, il tutto su un piano assolutamente “democratico”, (nel senso che, dato il costo relativamente basso dei computer, anche i più poveri di mezzi economici possono dotarsene).

È inoltre necessario fare una considerazione di carattere stavolta “temporale” (senza alcun tipo di autocompiacimento): la nostra sarà, con buona probabilità, l’ultima generazione in grado di effettuare un confronto su come la tecnologia abbia modificato la vita dell’uomo, oggi rispetto al passato, per il semplice motivo che le nuove generazioni nascono con una sorta di “tecnologia infusa”. La grande frequenza e intimità che i bambini hanno oggi con la tecnologia renderà certamente più difficoltoso il confronto col passato.

Dopo questa esaltazione del mondo del computer, di Internet, e più in generale dell’informatica, che trova per altro riscontro anche nei progressi e nelle facilitazioni che un professionista di qualsiasi tipo può ottenere dall’uso del pc (si pensi ad esempio al caso più “vicino” a noi, quello del giurista, il quale può ora contare, tra le altre cose, su un efficiente sistema di ricerca per sentenze e norme;  ancora, si pensi alle innumerevoli innovazioni che informatica e telematica stanno portando nel mondo della medicina (telemedicina), con interventi in campo di amministrazione delle strutture e delle risorse sanitarie, di cura del singolo paziente, di formazione del personale sanitario e così via), sorge spontanea una domanda: per quale motivo sembra radicata, nella classe dirigente italiana, una sorta di “resistenza” nei confronti dell’informatica, nei confronti di internet e dei vantaggi che un suo utilizzo come “driver per lo sviluppo” potrebbe portare al nostro paese, in campo economico e sociale?

La presenza in puntata dell’on. Antonio Palmieri, responsabile nazionale Internet del Pdl, (il quale tra l’altro risultava in quei giorni impegnatissimo nel tentativo di eliminare l’indirizzo “forzagnocca.it”, che, se digitato, portava direttamente ad un sito fotocopia del Pdl), ha dato adito ad una serie di polemiche e contestazione nei confronti delle attuali forze di governo, ma più in generale di tutta la politica, poiché il problema è anche dell’opposizione. Politica che ha dimostrato in più occasioni di sottovalutare il potenziale economico di Internet (forse perché in linea di massima estranea proprio al concetto di Internet) e di essere del tutto inadeguata alla risoluzione di problemi come la diffusione della rete a banda larga.

D’altra parte, a mio avviso, le recenti vicende riguardanti la c.d. “Legge Bavaglio” non possono far altro che aggravare il giudizio sulla situazione esistente in Italia per quanto riguarda il mondo di Internet. Altra nota dolente che mi trovo costretto a ricordare è il decreto Pisanu (d.l. 155/2005) che imponeva a qualsiasi esercizio pubblico che fosse intenzionato a fornire un servizio di Internet tramite terminali, prese ethernet o wi-fi, una serie di obblighi che di fatto hanno bloccato, da cinque anni a questa parte, la diffusione del wi-fi in Italia, contribuendo a rendere il nostro paese il fanalino di coda europeo per quanto riguarda la velocità media di connessione ad internet (solo 3 Mb/s).

Un’ignoranza, quella della nostra classe dirigente nei confronti di Internet, che non è stata scalfita nemmeno dal numero uno di Google, Eric Schmidt, il quale nel mese di maggio ebbe un incontro, qui in Italia, con il ministro dell’economia Tremonti e i ministri Brunetta e Romani, al fine di fargli comprendere l’importanza di Internet quale fattore di sviluppo dell’economia facendo leva sui dati del rapporto redatto dalla società di consulenza Boston Consulting, che parlano chiaro: il digitale rappresenta ora in Italia 31,5 miliardi di euro, circa il 2 per cento del prodotto interno lordo. Nel 2015 anche in uno scenario prudenziale potrebbe arrivare a contare i 59 miliardi di euro, pari al 4,4 per cento del PIL, con un tasso di crescita del 18 per cento.

Nonostante gli sforzi, questo cosiddetto “fattore Internet” non ha portato illuminazioni nella mente dei nostri ministri e per ora non c’è stata ancora nessuna manovra concreta in questo senso.

Se dunque è vero che le tecnologie dell’informazione e delle comunicazione (ICT) sono alla base del recupero di produttività per migliorare la concorrenza internazionale di un paese e per creare nuova occupazione qualificata, la speranza è che di qui a poco tempo sarà possibile osservare un impegno in questo senso anche in Italia.

Lorenzo Locci

Seminari integrativi a.a. 2011/2012

Si comunica che, a partire da martedì 29 novembre 2011, ricomincerano i seminari integrativi di informatica, dedicati agli studenti che abbiano necessità di colmare eventuali lacune in materia.
Quest’anno saranno tenuti dal Dott. Iecher e si svolgeranno in aula 12, il martedì dalle 16 alle 18.

Si ricorda che la frequenza è assolutamente facoltativa e non necessaria ai fini dell’esame. Chiunque sia interessato a partecipare può inviare una mail all’indirizzo miecher@luiss.it.

Apple sotto accusa per violazione della privacy

“L’iPhone ci spia!”

E’ questo l’allarme lanciato da due esperti di sicurezza informatica, Pete Warden e Alasdair Allan, durante la conferenza “Where 2.0” a San Francisco e a seguito del quale la nota azienda statunitense Apple è stata accusata di aver violato gravemente la privacy dei propri utenti.

I ricercatori hanno rivelato che il telefonino di Apple non solo registra tutti i dati del possessore, compresi orari di spostamento e coordinate geografiche, ma conserva i nostri dati ed archivia ogni dettaglio in un file segreto, condividendo poi le informazioni con altri device che vengono sincronizzati con l’iPhone. Si tratta di un caso unico poiché in nessun altro smartphone è stato rinvenuto un simile tracking code.

La funzione di “tracciamento segreto” sembra essere stata introdotta con iOS4  rilasciato nel giugno 2010. Il file mantiene tutte le informazioni di geolocalizzazione degli utenti di iPhone e di iPad registrando tutti i dati completi riguardo longitudine e latitudine. Ciò significa che chiunque venga in possesso del nostro iPhone, una volta collegato ad un qualsiasi computer, può venire dettagliatamente a conoscenza di ogni singolo posto che abbiamo visitato.

A questo proposito, il direttore del gruppo Privacy International ha commentato che “la posizione geografica è uno degli elementi più riservati della nostra vita quotidiana e la conservazione di questi dati costituisce una grave minaccia alla privacy”.

Gli esperti hanno assicurato che i dati non vengono inviati in nessun modo all’esterno del dispositivo in cui sono memorizzati, se non tramite il backup dello stesso. Ma qualche dubbio rimane. Vi sono buone probabilità infatti che Apple utilizzi questi dati, anche se in forma anonima, per migliorare il servizio di localizzazione tramite Wi-Fi, utilizzando un database che sono in questo modo gli stessi utenti a fornirgli.

Per Apple quindi ogni utente è un fornitore di informazioni!

Il dato confortante è che tutti i dati giungono ad Apple in forma anonima per cui questa non sarebbe in grado di identificarci. Resta il fatto però che il file contenente le informazioni rimane in memoria sul dispositivo e sul computer senza alcuna forma di protezione.

Lo hanno dimostrato dei ricercatori con la creazione di un App specifica, l’iPhone Tracker, la quale mostra esattamente la cronologia di localizzazione di ogni iPhone indicando le località in cui si è trovato.

In realtà tutto questo è frutto di ciò che ognuno di noi accetta facendo ciecamente click sui termini e condizioni di Apple, aggiornate l’ultima volta nel giugno 2010, data coincidente con il rilascio di iOS 4.

In questa occasione, il tema principalmente trattato dalla Privacy Policy di Apple è proprio quello della raccolta ed utilizzo delle informazioni non personali, compresi i dati di posizione.

L’informativa infatti contiene un paragrafo specifico relativo alla Raccolta ed utilizzo di dati non personali in cui si legge: raccogliamo anche dati non personali, ossia dati che sono in una forma tale da non permettere un’associazione diretta con alcun individuo specifico. Potremmo raccogliere, utilizzare, trasferire e divulgare dati non personali per qualsiasi motivo.

Apple cita poi alcuni esempi: possiamo raccogliere informazioni quali l’occupazione, la lingua, codice postale, prefisso,l’identificativo univoco del dispositivo, la posizione e il fuso orario in cui viene utilizzato un prodotto Apple in modo che possiamo meglio comprendere il comportamento dei clienti e migliorare i nostri prodotti, servizi e pubblicità.

L’informativa si sofferma poi sui servizi di localizzazione in particolare: per fornire servizi basati sulla posizione su prodotti Apple, Apple e i nostri partner e licenziatari possono raccogliere, utilizzare e condividere dati precisi sul luogo, inclusa la posizione geografica in tempo reale del tuo computer o dispositivo Apple. Questi dati sulla posizione vengono raccolti in forma anonima in un formato che non ti identifica personalmente e che viene utilizzato da Apple e dai nostri partner e licenziatari per fornire e migliorare prodotti e servizi basati sulla posizione. Per esempio, possiamo condividere la posizione geografica con i fornitori di applicazioni quando accetti i loro servizi di localizzazione.

Il vero problema però è che i dati di posizione, considerati dati molto personali, non vengono memorizzati solo sul proprio iPhone ma vengono replicati su qualsiasi pc con cui esso si sincronizza.

Ma perché Apple raccoglie i nostri dati? E’ questa la domanda che ci si è posti ed a cui si è risposto che Apple abbia attivato questa funzionalità arrogandosi il diritto di registrare i nostri spostamenti e memorizzare tutto in un file non criptato e facilmente accessibile, pensando in un futuro di poter utilizzare questi dati per la pubblicità ritagliata in base alla location o per migliorare i servizi offerti. I più ottimisti invece parlano di un errore nella programmazione più che di una chiara intenzione di Apple di controllare i propri utenti.

La questione ha suscitato molto clamore tanto che negli U.S.A. è stata avviata una class action contro Apple. Due cittadini americani hanno infatti depositato una denuncia presso la Corte Distrettuale di Tampa, in Florida, accusando Apple di frode informatica e violazione della privacy e chiedendo al giudice di intervenire per bloccare la raccolta dei dati su iPhone e iPad. I due inoltre hanno richiesto il rimborso del prezzo pagato per l’acquisto dei loro iPhone affermando che se avessero saputo che i device sono in grado di rilevare la propria posizione non avrebbero mai acquistato un prodotto Apple.

Anche la Germania, dove vige una normativa molto severa sulla privacy degli utenti, chiede chiarimenti ad Apple affinché riveli dove, per quanto tempo e per quale scopo i dati vengono conservati nonché chi vi abbia accesso e le modalità di protezione contro gli accessi non autorizzati.

In Italia, l’Associazione per la difesa e l’orientamento dei Consumatori (ADOC) ha chiesto al Garante per la Protezione dei Dati Personali di intervenire per chiarire i punti della questione e, nel caso di riscontro di violazione della normativa sulla privacy, di applicare le eventuali sanzioni. Il Presidente dell’ADOC ha dichiarato che la violazione della privacy operata dai dispositivi Apple è sconcertante dal momento che i dati raccolti non risultano protetti da alcun sistema di sicurezza.

Per chiarire la loro posizione relativa al problema privacy, i rappresentati di Apple e Google sono stati convocati dinanzi al Senato degli U.S.A. Google infatti è stato accusato insieme ad Apple della costruzione di giganteschi database, che permettono la distribuzione di messaggi promozionali più mirati anche grazie a dati geografici. Google ha risposto alle critiche spiegando che gli utenti di cellulari con il suo sistema operativo Android possono scegliere quali dati trasmettere, attraverso procedure di “opt-in” e “opt-out“. Viene sempre richiesto il permesso di utilizzare la propria posizione sul territorio, per esempio, quando si installa un’applicazione che richiede la localizzazione per il suo funzionamento.

È questo l’ “opt-in”: chiunque può decidere se vuole o meno fornire i dati richiesti. Inoltre, Google ricorda che gli utenti possono valutare sempre di ritirare il proprio consenso già dato (“opt-out”). E ancora, si sottolinea che in realtà le informazioni sono associate ad un numero identificativo che non è legato a dati personali, ma al territorio.

Anche l’Apple si è affrettata a spiegare che non c’era nessuna intenzione di tracciare tutti gli spostamenti degli utenti, dato che si tratta di una pratica illegale e di una invasione della privacy, ed ha rilasciato nei giorni scorsi un aggiornamento del sistema operativo per correggere e bloccare la geolocalizzazione: l’iOS 4.3.3. In realtà, grazie all’aggiornamento il problema è stato risolto in parte, in quanto il database degli spostamenti esiste ancora ma non verrà più copiato nel pc durante la sincronizzazione con iTunes. Il file contenente le posizioni degli utenti viene ora solo criptato e il tempo di conservazione dei dati di geolocalizzazione si riduce a 7 giorni.

Non si è  ancora certi che il Senato degli U.S.A. dichiari chiusa la questione.

Intanto, colgo l’occasione per ricordare che ogni qualvolta usufruiamo di un servizio che richiede l’inserimento dei nostri dati personali sarebbe bene informarsi preventivamente sul modo in cui i nostri dati saranno utilizzati, su chi potrà avervi accesso e sulle eventuali possibilità di opporsi al trattamento. In questo modo, diventiamo noi i maggiori responsabili ed i migliori difensori della tutela della nostra privacy!

Ilaria Di Benedetto

Yahoo! e il libero arbitrio

Sentenza rivoluzionaria quella emessa dalla nona Sezione del Tribunale di Roma.

Il motore di ricerca Yahoo! è stato ritenuto responsabile per link a siti pirata che violano i diritti d’ autore.

Ma può un motore di ricerca essere ritenuto colpevole per il semplice fatto di organizzare e individuare collegamenti al fine di offrirci un servizio sempre migliore?

Basterebbe riflettere sul fatto che il computer agisce non per significati umani, bensì elettrici, cioè a determinate combinazioni di stati elettrici corrispondono precise risposte.

Per tutelare il diritto d’ autore (che DEVE essere sempre e comunque salvaguardato, in quanto chi investe in settori quali cultura, arte e spettacolo ha diritto a veder protetto il proprio lavoro) una soluzione, che tra l’altro è stata fin ora adottata, sarebbe quella di punire gli hosting provider, quei siti cioè che forniscono direttamente il contenuto “pirata”.

Perché allora ritenere responsabile il programmatore del software a causa della condotta di un altro soggetto quando i link sono generati automaticamente da algoritmi e può essere attribuito loro solo un significato elettrico e giammai etico?

Se ogni link dovesse essere controllato, Internet verrebbe svuotato del suo significato. Scopo del world wide web è quello di fornire informazioni, giuste o sbagliate che siano. Spetterà poi a chi usufruirà di tale servizio, secondo la propria coscienza, stabilire se prendere in considerazione o meno determinati link. Potremmo benissimo prendere come esempio  il fatto che tutti sappiamo che rubare è un reato e che si va incontro a delle sanzioni qualora venisse commesso questo illecito. Ma nulla può impedire alla mia libera volontà di compiere questo reato. Stesso discorso può essere applicato ai link pirata: tutti sappiamo che scaricare film o quant’altro è illegale. Spetterà ad ognuno di noi, in base al suo senso di responsabilità scegliere o no se compiere l’illecito. Alla luce di ciò, pensate che anche chi offra un servizio di informazione come un motore di ricerca che lascia a ciascuno la più ampia libertà di scelta possa o debba essere ritenuto colpevole?

È augurabile quindi che vengano emanate apposite leggi esclusivamente per Internet non solo a livello italiano, ma addirittura a livello internazionale, fermo restando che la libertà di espressione, di informazione, di formularsi idee ed opinioni debba sempre e comunque essere tutelata.

Alessandro Panici

We are all terrorists now!

What in the hell is going on? Have most all in this country lost their minds and their spirit, or concerning freedom, is apathy all that remains? Everything today in actuality is conspiratorial, and those who have been continuously demoralized for their constant suspicions of government are now the only sane ones left. This is evident because “1984″ is no longer fiction; it is reality!

The latest crime in a long line of usurpations of liberty by government evildoers has now effectively eliminated privacy as we know it. The government now claims to own your computer, and every single file and every single piece of information on your computer.

Not only does government now own it, but it can use that information to harm and arrest you, to share your private information with anyone or any entity it chooses, including the police state enforcers, and at any time. […] This tyrannical and fascist federal government can do virtually anything it wants to, and at any time, and will do so under the guise of “legality.” Yes, in today’s world, everything the government does to us and against us is claimed to be legal. That is because it is “the law.” […]

August 5, 2009

Gary D. Barnett

La culla primigenia dei diritti inviolabili dell’uomo, madre procreatrice di quel diritto alla privacy (oggi così benvoluto e altrettanto vituperato), gli Stati Uniti d’America, si troverebbero in una condizione di radicale dispotismo da soffocare perfino l’esercizio delle libertà fondamentali con il pretesto di agire secondo la legge.

Questo è  un sommario delle sopracitate parole di Gary Barnett che mi hanno portato a scrivere la seguente breve riflessione con la speranza di ottenere, chiarissimo Professore, un Suo parere e quello degli altri miei colleghi.

Mi sono imbattuto in questo articolo navigando in Internet con lo scopo di approfondire il tema della privacy e sono rimasto sorpreso a leggere come un americano giudichi la situazione in cui versa il suo Stato; inoltre l’autore non è di certo un anonimo privato di cui si conosce solo il nome, bensì il presidente della Barnett Financial Services, Inc., compagnia oramai affermata nel campo finanziario con sede a Lewistown in Montana. Insomma, a dare del fascista all’attuale governo federale non è stato un comune cittadino dalle idee un tantino radicali (e forse estremamente democratico-progressiste) ma una personalità di spicco del ceto imprenditoriale. Di biasimi all’ orientamento poliziesco assunto dagli States di seguito il Patriot Act se ne sono sentiti a iosa, la maggior parte provenienti dai politici d’oltreoceano e dalla Comunità Europea in generale; però certe affermazioni in bocca ad un benemerito americano non possono che sottolineare una presa di coscienza piena e consapevole di chi è stato cresciuto con determinati valori che sembrano non solo tristemente destinati a tramontare, ma anche ad essere capovolti. Siamo davvero al crepuscolo di alcuni celebrati principi dell’ordinamento costituzionale americano, così cari alla Corte Suprema durante tutto il ‘900?  A detta di Barnett certamente sì: il diritto alla privacy  è per lui un sostanziale presupposto per il godimento della libertà, ristretta in modo impietoso da una serie di crimini e usurpazioni messe in atto dal governo federale. Sono parole così pesanti da poter pacificamente suscitare scetticismo o, quanto meno, convinzione di una visione iperbolica della situazione ( quella che avrebbe un giornalista audace, per intenderci). Io stesso, non lo nego, prima di concedermi una riflessione sull’articolo, ritenevo l’opinione del suo autore eccessivamente disfattista; consideravo inattaccabile, sulla base di alcuni colossal hollywoodiani e un paio di legal thrillers ( per la verità in modo abbastanza superficiale e inconsapevole), quel diritto ad “avvalersi della facoltà di non rispondere” e tenere assolutamente al segreto da tutti alcune informazioni personali; avevo bene in mente anche vari aneddoti storici come il fenomeno del maccartismo  – vissuto tragicamente in ambiente altolocato, per cui molte star del cinema (tra cui Charlie Chaplin) furono indagate per sospetto di propaganda comunista e complotto con l’URSS – che accrebbe di molto, in tempi successivi, la sensibilità statunitense verso il diritto alla privacy.

Ripensai poi, e fu come un fulmine a ciel sereno, al tratto del suddetto articolo ove Barnett cita il noto romanzo di Orwell “1984”,quel riferimento mi rimase proprio impresso. Dopo non poche elucubrazioni mentali conclusi che l’autore aveva invece pienamente ragione: come il Grande Fratello, capo del Partito Unico, sfrutta la guerra perenne per mantenere il controllo totale sulla società, così il Pentagono sotto la copertura della lotta al terrorismo ha tacitamente soppresso la libertà di ognuno mettendo a punto espedienti di monitoraggio sulla popolazione che nemmeno possiamo immaginare:

“The Big Brother is watching you” recitavano i manifesti affissi ovunque in Oceania nell ’84. Oggi ciò in America non è più fantasticheria: si parla di sistemi informatizzati, interconnessione di una pluralità di archivi, sistemi di filtraggio automatizzato per connessioni telefoniche e telematiche, che annichiliscono ogni speranza di segretezza. Il Governo potrebbe legittimamente sapere tutto su di te, se solo lo volesse; we are all terrorists now, questo è il monito di Barnett.

Ecco dunque approssimarsi minacciosa quell’entità onnipresente che, perduta ogni veste trascendente o filosofica, si appresta a diventare il Leviatano del terzo millennio; sembra sempre più reale e negli USA ha già mosso i suoi primi passi… e i nostri diritti? “Ubi maior, minor cessat” pare l’unica rassegnata risposta.

Luca D’Agostino