La grande bellezza ***1/2
“Our journey is entirely imaginary. That is its strength”
Louis Ferdinand Celine, Viaggio al termine della notte
Il nuovo film di Paolo Sorrentino e’ il ritratto travolgente, generoso, feroce di una citta’ e di un Paese, devastati dalla superficialita’, dallo spreco, da un continuo stillicidio del proprio talento.
La grande bellezza e’ forse il film definitivo sui nostri anni buttati via, sulle nostre promesse non mantenute, sulla decadenza inarrestabile di una borghesia incapace di qualsiasi umanita’ e persino di una rabbia carognesca, di una sentita cattiveria. E’ anche il piu’ bel ritratto di Roma dai tempi di Fellini e di Scola, numi tutelari di questo film, che rimane un lavoro personalissimo del suo autore.
La Roma di Sorrentino è naturalmente una città immaginaria, che il talento del regista reinventa a partire dalla bellezza di alcuni luoghi conosciutissimi o da riscoprire. E’ la magia del cinema a guidarlo, non il realismo della cronaca.
Jep Gambardella, interpretato da uno strepitoso Toni Servillo, e’ un napoletano a Roma. Scrittore di un solo libro giovanile di grande successo, L’apparato umano, occupa un magnifico appartamento con vista sul Colosseo.
Ha barattato la fatica dell’artista con la leggerezza del vuoto vivere mondano. Scrive per un giornale importante, diretto dall’amica Dadina, e si diverte a fare tardi la sera, organizzando e partecipando a feste esagerate, chiassose, stracafonal, secondo la vulgata di Dagospia.
E’ diventato, come lui stesso ci ricorda, il re dei mondani. Va a letto quando la gente normale si sveglia ed e’ troppo pigro per allontanarsi da Roma e dalla sua piccola cerchia di amici fidati: un grande rivenditore di giocattoli, una scrittrice impegnata, una ricca ereditiera con un figlio depresso, un sedicente scrittore, che vive ancora nella sua stanza di studente.
Quello di Jep e’ un lungo viaggio al termine della notte, che comincia con i versi di Celine e continua con un alternarsi di piccoli episodi, feste, epifanie, in una Roma inedita, notturna, misteriosamente vuota e silenziosa, in cui il protagonista si aggira, annoiato e complice, sino alle prime luci l’alba.
Il sacro ed il profano si incrociano e si compenetrano quasi indissolubilmente. Accanto alla terrazza di Jep c’e’ un convento di suore, alle sue feste ed alle cene non sono estranei vescovi e cardinali, anche nella colonna sonora la musica di David Lang e Arvo Part si alterna a quella di Bob Sinclair.
Nella notte avvengono incontri sempre sorprendenti: Jep si imbatte in una ricchissima milanese che abita a Piazza Navona – il cui unico impegno e’ fotografarsi con il telefonino e condividere le immagini su facebook.
Quindi finisce per ritrovare un vecchio amico, eroinomane e gestore di night-club, preoccupato di accasare l’unica figlia, che a quarant’anni ancora fa lo spogliarello nel suo locale.
Infine incontra il marito della sua prima ragazza, che gli confessa che la moglie non ha mai smesso, segretamente, di amare Jep, anche senza averlo mai piu’ incontrato: ha confidato i suoi sentimenti ad un diario.
Le feste segnano il ritmo interiore del film: lanciatori di coltelli e bambini riluttanti si rivelano artisti insospettabili, performer pretenziose e fatue vengono stroncate da Jep senza pieta’, cardinali eminenti parlano solo di ricette di cucina, nobili decaduti si offrono per fare gli invitati a pagamento, la cocaina segna i volti devastati dalla chirurgia plastica e dal sudore di balli scatenati.
Jep e’ un osservatore sardonico e disilluso di questa umanita’, decisa a ballare letteralmente sul vuoto. L’attraversa con una sensibilita’ mal riposta e con una disillusione pienamente romantica. Cerca conforto alla sua solitudine, ma non si lascia coinvolgere da nessun sentimento.
L’amico, aspirante drammaturgo, che vive nella sua venerazione, cerca di sfondare con una piece teatrale off, ma finira’ per dismettere i suoi sogni romani; l’amica che rivendica il proprio impegno, viene demolita da Jep con un monologo memorabile sull’ipocrisia della rappresentazione di se’; il figlio depresso dell’ereditiera porra’ fine al proprio tormento, consentendo a Jep una strepitosa lezione sui funerali.
L’ultimo incontro surreale del protagonista e’ con un’anzianissima suora, in odore di santita’, che in gioventu’ aveva letto il romanzo di Jep e che, di passaggio a Roma, ha accettato un inconsueto invito a cena. E’ forse la parte meno riuscita del film di Sorrentino, ma anche quella che consente al protagonista una sorta di via d’uscita, uno sguardo che non puo’ certo essere rivolto al futuro, ma semmai al passato.
La grande bellezza e’ forse quella che si manifesta all’improvviso una mattina sul terrazzo di Jep o e’ magari quella di un ricordo lontano nel tempo, finalmente richiamato alla memoria.
Sorrentino cerca il capolavoro, riempie il suo film di continue digressioni e ci accompagna all’interno dei segreti di una citta’, che qualcuno nel film definisce l’ultima in cui il marxismo si e’ effettivamente realizzato: una citta’ che ti regala cinque minuti di attenzione e poi ti ingloba nella sua aurea mediocritas.
Il film si ispira in maniera evidente alla struttura de La dolce vita, con la sua impaginazione da rotocalco, ha un ritmo rapsodico e non tutto e’ perfettamente riuscito, ma Sorrentino ha il coraggio della generosita’ e se sbaglia lo fa per eccesso, soprattutto in fase di scrittura.
Non sempre infatti la forza visionaria del suo cinema e’ accompagnata da una scrittura capace di occultarsi dietro l’evidenza delle sue immagini.
E non e’ un caso che il suo sia un film sull’avarizia sentimentale e culturale, sulla dissipazione di un patrimonio, soprattutto intellettuale. La bellezza e’ intorno a noi, nella storia, nella tradizione, nella capacita’ evocativa di una citta’ unica, ma non siamo piu’ capaci di coglierla, accontentandoci di anestetizzare la vita con surreali botox party dal chirurgo plastico, che assomigliano a messe cantate, scandite da un coro di carte di credito.
Non e’ solo la bellezza a sfuggirci, ma anche l’atrocita’ del mondo che abbiamo creato: accanto a Jep vive infatti un vicino silenzioso ed impenetrabile, con molti segreti da nascondere.
Il film e’ ricchissimo, irriducibile ad una sola interpretazione e lascia un senso profondo di inquietudine. Il viaggio di Jep e’ etico ed estetico al contempo, sospeso tra lo stupore ed il triviale, ma non c’e’ piu’ tempo per raccontarne l’ascesa e la caduta, l’abisso e’ gia’ davanti a noi.
Molti critici italiani a Cannes non l’hanno amato, alcuni sottolineando i limiti di scrittura drammatica, altri contestandone l’attenzione ad un mondo da buttare, altri ancora guardandolo con i film di Fellini negli occhi o accusando Sorrentino di aver descritto una Roma che non esiste.
A me sembra che sbaglino. Innanzitutto perche’ Sorrentino e’ soprattutto un creatore di personaggi e non di storie, poi perche’ i limiti di scrittura ci sono, ma c’e’ anche un film dalla straordinaria capacita’ evocativa e visionaria, infine perche’ la Roma di Fellini e quella reale sono entrambe lontanissime: l’Italia di allora non ha piu’ nulla di quella di oggi e Sorrentino non cerca confronti, ne’ citazioni, ma parla d’altro. Non è un caso se Marcello, il giovane protagonista della dolce vita era ancora incerto se lasciarsi attrarre dalla Roma rutilante del boom o perseguire le sue velleità di scrittore, mentre oggi il nostro Virgilio è il sessantacinquenne Jep Gambardella, che quella scelta l’ha compiuta molti anni prima. La prospettiva è radicalmente diversa.
A Sorrentino non interessa neppure il realismo: chi vi cercasse davvero quelle feste, quelle redazioni e quei personaggi ne resterebbe deluso. Ma il cinema è proprio questo!
Il successo internazionale del film, coronato da una messe di premi, come non accadeva da secoli ad un film italiano, ha sollevato nuovi sprezzanti commenti, che hanno curiosamente unito una buona parte della nostra residua intellighentia – se così si può chiamare – ed il pubblico televisivo, che ha visto il film, in via del tutto eccezionale, la sera dopo il trionfo agli Oscar, facendone un’evento, mediatico e social, trasversale.
Molti hanno travisato lo spirito di un film colto – d’autore, si sarebbe detto una volta – che parla un linguaggio lontanissimo dai canoni tradizionali e che improvvisamente si è ritrovato al centro di una popolarità del tutto inconsapevole.
Chi vi ha cercato le lacrime di Nuovo Cinema Paradiso, de Il postino, de La vita è bella o lo spirito dolce-amaro da commedia all’italiana di Mediterraneo (gli ultimi nostri film da esportazione) ne sarà rimasto molto deluso.
Il film di Sorrentino è tutta un’altra cosa: è frammentario, episodico, cerca la suggestione e non la sottolineatura, piega il racconto sino a renderlo solo una traccia sotterranea, un tarlo che pian piano corrode l’imperturbabilità sorniona e disincantata di Jep.
Sorrentino è riuscito persino a spazzar via, in poche fulminanti battute, tutta la retorica dell’impegno di chi ha finito per barattare anche gli ideali più nobili, con un posto dove esercitare il proprio piccolo potere, all’interno di aziende culturali che tutto producono, fuorchè cultura…
Suggerire poi che il film sia stato pensato per un pubblico straniero (o tout court americano) è senza senso: magari esistesse una formula da seguire, per restituire al nostro cinema un afflato meno provinciale!
E non è un caso se la grandezza dei nostri autori l’hanno compresa – e premiata – quasi sempre all’estero, da Rossellini e De Sica a Fellini ed Antonioni, dal cinema politico di Rosi e Petri, sino a Matteo Garrone.
Per Toni Servillo, che sfodera nuove sfumature di disillusa napoletanita’, sono ormai terminati i superlativi, ma La grande bellezza si giova di uno stuolo di attori altrettanto formidabili, chiamati ciascuno ad interpretare una piccola parte nel mondo di Jep e molto spesso a mettere in scena direttamente il proprio stereotipo cinematografico, come accade a Carlo Verdone e Sabrina Ferilli, nei panni non casuali di Romano e Ramona.
La fotografia di Bigazzi coglie luci e prospettive inedite e si giova della magnifica composizione orizzontale delle inquadrature di Sorrentino, che dopo una prima parte barocca e sontuosa, sembra assecondare l’andamento piu’ riflessivo del suo protagonista.
Da vedere e rivedere, per la sua straordinaria densita’. Uno specchio impietoso alla nostra natura. Epocale.
Ad Elena, che continua a sognare ad occhi aperti.
la più bella, illuminante e profonda, recensione che abbia letto finora. bravissimo
Grazie mille. E’ molto gentile!
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