Filemone di Colosse in Frigia, fu discepolo di s. Paolo. A lui l'Apostolo scrisse la più breve delle sue epistole, una delle quattro che spedì dalla prigionia romana (Eph., Phil, Col, Philem.). Il suo nome era diffuso nell'Asia Minore (per es. il commediografo greco Filemone, cilicio, 361-262 a.C.) e soprattutto nella Frigia, come attestano, con molte iscrizioni, Aristofane (Aves, 762) e Ovidio (Metamorph., VIII, 631: il bel mito di Filemone e Bauci). Era un facoltoso colossese, proprietario di fabbricati e schiavi. Poiché s. Paolo non era stato a Colossc, Filemone deve averlo conosciuto ad Efeso (cf. Act. 19, 10-11), oppure durante un giro attraverso l'interno della provincia d'Asia (Act. 19, 26; I Cor. 16, 19). Fu convertito e battezzato da Paolo insieme ai suoi (Philem. 19: « devi a me anche te stesso »), probabilmente durante il suo lungo ministero efesino tra il 54 e il 57. Filemone si distingueva per la sua generosità nel soccorrere e nell'ospitare « i santi » (ibid. 5-7, 22) e la « chiesa » o comunità colossese, si radunava nella sua « casa » (ibid. 2). Aveva almeno cinquant'anni quando (nel 63) Paolo gli scrisse da Roma, presentandoglisi come « vecchio » (ibid. 9) ; se Archippo, che doveva averne almeno trenta poiché godeva di autorità nella chiesa colossese (Col. 4, 17), era suo figlio, Filemone era più giovane di s. Paolo di dieci o quindici anni, non più. S. Paolo chiama Filemone (ibid. 1) suo « collaboratore »; egli aveva infatti impiantato e diffuso l'Evangelo a Colosse, insieme ad Archippo il quale è considerato da Paolo suo « commilitone » (ibid. 2) e in Col. 4, 17 è menzionato come investito d'importante ministero nella chiesa colossese; perciò parecchi ritennero fosse vescovo di Colosse, forse sotto l'alto controllo e la direzione di Filemone (preposto alle varie chiese della valle del Lieo, Laodicea compresa?). Il termine greco con cui Paolo qualifica Archippo, è classico (Senofonte, Platone, Aristotele), ma infrequente nei papiri (5-6 volte) e raro nel sec. I : solo un'altra volta nel N. T. (Phil. 2, 25) e una volta in Flavio Giuseppe al femminile (Bell. Iud. VI, 9, 1). Non sorprende quindi se le Constitutiones Apostolicae (sec. IV), VII, 46, 12 (ed. Funck, Paderborn 1905, pp. 454 sg.) dicono Filemone vescovo di Colosse e Archippo vescovo di Laodicea (l'assegnazione di quest'ultimo a Laodicea è dovuta al fatto che in Col. 4, 17 sembra incluso nella « chiesa » di Laodicea). Che Filemone fosse capo della Chiesa di Colossepuò dedursi anche dalla sua forte e operosa amicizia con s. Paolo (Philem. 13, 17, 22), che lo pone alla pari degli altri suoi noti « collaboratori »; per mezzo suo l'Apostolo si rivolge alla « chiesa » colossese (ibid. 2, 25), le cui assemblee dovevano essere presiedute da lui « nella casa » sua. Per uno strano equivoco, il colossese Filemone venne creduto di Rodi da vari bizantini (Suida, G. Ce-dreno, ecc.) che identificavano i Colossesi con i Rodioti, la cui isola era caratterizzata dal famosissimo « colosso ». Questa curiosa opinione riappare ancora in s. Francesco di Sales (Traité de l'Amour de Dieu, 1. VII, c. 6). Se, come è probabile, Filemone era capo della comunità colossese, è da ritenersi uno « spirituale » eccezionalmente « perfetto » (cf. I Cor. 2, 6, 10-16), poiché l'Apostolo gli inviò, insieme alla breve lettera a lui intestata, la sublime sintesi dell'Epistola ai Colossesi. Al tempo di Teodoreto (sec. V) si mostrava ancora in Colosse la casa di Filemone (In epist. ad Philem., Prooem., in PG, XXVI, col. 601). Appia, o meglio Affia o Apphia, fin dall'inizio della lettera, è posta da s. Paolo a fianco di Filemone « fratello diletto » e salutata come « sorella diletla » (questo aggettivo manca nella maggioranza dei codd. e nelle edizioni critiche, ma si ha nella Volgata, nella Peshitta e in parecchi codd. dal sec. VIII in poi). S. Giovanni Crisostomo, Teodoreto, ed altri al loro seguito, hanno ritenuto, con buon fondamento, che essa fosse la moglie di Filemone. Apparteneva, comunque, certamente alla sua famiglia, come del resto Archippo, nominato per ultimo fra i tre destinatari della lettera (ibid. 1-2) i quali formavano un gruppo familiare assai caro a Paolo; Archippo doveva essere il figlio di Filemone ed Appia. La loro casa amica era a disposizione dell'Apostolo (ibid. 22). I tre, insieme al loro schiavo convertito Onesimo, che è oggetto, e (con Tichico), latore dell'Epistola a Filemone, sono commemorati nei martirologi latini, al seguito dei menologi greci, il 22 nov. ; tutti e quattro sarebbero stati martirizzati insieme a Colosse. Tra Filemone e s. Paolo intercorrevano rapporti di figlio a padre, una solidarietà (ibid. 17) di beni, di opere e di responsabilità che indusse l'Apostolo ad intervenire « più esortando che comandano » (ibid. 8-9) per risolvere il delicato caso di Onesimo, schiavo di Filemone, che era fuggito. Filemone aveva acquistato un giovane schiavo, svelto e capace, che chiamò Onesimo (« utile »), nome greco che ricorre già in Tucidide. Dopo aver derubato il padrone, Onesimo scappò; giunse a Roma, ove confluivano avventurieri da ogni nazione, mentre Paolo vi era prigioniero (61-63). Gli schiavi fuggitivi erano fuori legge e, unendosi ai loro pari, si abbandonavano spesso alla delinquenza. Esaurito il danaro, braccato forse dalla polizia posta da Filemone sulle sue tracce, Onesimo, che in casa dell'antico padrone doveva aver sentito parlare di Paolo, andò a trovarlo nell'alloggio che l'Apostolo aveva affittato e ove riceveva liberamente le visite di molti (Act. 28, 30-31). Paolo insegnò a Onesimo qual'è la vera, d'unica libertà : la vita interiore « nascosta con Cristo in Dio » (Col. 3, 3). Gesù Cristo, il più potente e libero tra gli esseri, sacrificò la sua sovranità e la sua libertà assumendo la veste di schiavo, e volle subire la crocifissione degli schiavi (Phil. 2, 7-8), per riscattare tutti dalla quadruplice schiavitù dell'errore, della carne con i suoi desideri, del mondo, del peccato (I Cor. 7, 23; Rom. 6, 16-22), di fronte alla quale le oppressioni esteriori sono cosa insignificante. Paolo stesso era vissuto nella schiavitù della lettera della Legge, la quale non affrancava dalla carne e dal peccato; ma convertitosi allo Spirito di Cristo Signore, aveva trovato l'unica vera libertà (II Cor. 3, 17). Perciò la fede che unisce a Gesù e il Battesimo che immerge nel suo mistero di morte e di vita elevano il rigenerato sopra le transitorie vicende umane e annullano le abnormi distanze sociali prodotte dalle prepotenze egoistiche di pochi fortunati. « Hai ricevuto la vocazione cristiana essendo schiavo? Ciò non ti deve angustiare. Ma, anche se puoi diventare libero, metti a profitto la tua condizione di schiavo. Infatti, colui che è chiamato nel Signore essendo schiavo, è il liberto del Signore. Parimenti, colui che è stato chiamato essendo libero è lo schiavo di Cristo. Siete stati comprati in contanti (dal Redentore); non diventate schiavi degli uomini!» (I Cor. 7, 21-23). Il più meschino schiavo di Cristo è il più libero degli uomini; invece la libertà conclamata dagli uomini abbandonati a se stessi è la più obbrobriosa delle degenerazioni oppressive (Rom. 1, 21-26). Solo chi è morto all'uomo vecchio crocifiggendosi con Gesù al mondo e alle sue nefandezze per risorgere con lui alla nuova vita, eterna (Col. 3, 6-10; Eph. 4, 20-24; Gal. 3, 27; 6, 14-15), possiede la libertà autentica: «voi siete stati chiamati per la libertà, fratelli; soltanto che non dovete fare della libertà un pretesto per la carne, ma, mediante la carità, dovete servirvi a vicenda » (Gal. 5, 13). Dalla vera ed unica libertà che si identifica con l'amore divino in Gesù Cristo, « né i ceppi, né le oppressioni, né le sofferenze del tempo attuale » ci potranno mai separare (Rom. 8, 18, 35-39). Perciò come non esiste più distanza tra il giudeo e il pagano, non vi è più differenza tra lo schiavo e il libero (Col. 3, 11; Gal. 3, 28; I Cor. 12, 13) : sono una sola e stessa cosa in Cristo. Ignoriamo quante volte Onesimo sia stato istruito da Paolo, il quale, alla fine, lo battezzò. Stretto in catene, l'Apostolo libera lo schiavo di Filemone, che poteva ripetere ciò che Diogene diceva del suo maestro Andatene : « Mi ha reso libero nell'anima, e così ho cessato di essere schiavo ». Paolo avrebbe voluto trattenere Onesimo, ormai cristiano e quindi libero, con sé, perché l'aiutasse mentre era prigioniero (Philem. 13). Ma legalmente il neofito era ancora schiavo di Filemone e, poiché Tichico partiva per d'Asia (Col. 4, 7-9), Paolo invia entrambi alla chiesa di Colosse con una sua lettera per Filemone. Questa è la più breve — come si è detto — dell'epistolario paolino (25 versetti); eccezionalmente sembra essere stata scritta interamente di mano dell'Apostolo (Philem. 19) e verte intorno allo schiavo redento per il quale Paolo chiede il perdono, il condono, e delicatamente suggerisce, infine, l'affrancamento (ibid. 21). Non si tratta di un affare puramente privato : è connesso indissolubilmente alla fede e alla morale cristiana. Onesimo era ormai un « fratello carissimo e fedele » di Paolo e, in quanto tale e come uno « dei loro », interessava la Chiesa colossese (Col. 4, 9). L'Apostolo mediante questa lettera pone le premesse dell'affrancamento dello schiavo convertito. La manumissio (cf. I Cor. 7, 22), nelle province greche, era attuata in forme non solenni che venivano progressivamente accolte nel diritto romano; la più semplice e spontanea era la manumissio inter amicos; il padrone dichiarava in presenza di amici di liberare lo schiavo (U. E. Paoli). Paolo che, nel diritto nuovo e più profondo della nuova vita in Cristo, era padrone di Onesimo assai più di Filemone, inizia ora, con la liberazione dello schiavo rigenerato, l'abolizione della schiavitù. « Incatenato per Cristo Gesù », Paolo si unisce come intestatario della lettera « il fratello Timoteo ». Gli sono in quel momento vicini Epafra « mio concaptivo in Cristo Gesù » e i « collaboratori » Marco, Aristarco, Dcmas, Luca (Philem. 23-24). Questi nomi sono gli stessi che compaiono nell'Epistola ai Colossesi (Col. 4, 10-14), ove è menzionato in più Gesù il Giusto. Varie analogie di concetto e di forma fra la fine dell'Epistola ai Colossesi e la lettera a F. (Philetn. 2 = Col. 4, 17; Philem. 1, 9, 13 = Col. 4, 18; Philetn. 8 = Col.3, 18; Philem. 10 = Col. 4, 9; Philem. 16 = Col.4, 7; Philem. 23 = Co/. 4, 10; ecc.). Molti accenni a identiche persone e circostanze, permettono di affermare che Philem. fu scritta subito dopo Col., al termine della biennale prigionia romana, cioè nella primavera del 63. Le due lettere, infatti, dovevano essere recate a Colossc da Tichico con One-simo (Col. 4, 7-9). Come le grandi epistole, Philem. è divisa in prologo, corpo della trattazione, epilogo e, come le altre, fin dal prologo irradia la luce e la vita dell'Evangelo. L'Apostolo sa che F. leggerà la sua lettera durante la sinassi liturgica in casa sua : perciò saluta, con Filemone e Archippo che la ospitano e dirigono, « la chiesa che si riunisce in casa tua » (Philem. 2), cui ritorna nella chiusa (ibid. 25) augurandole « la grazia di N. S. G. C. » (« con lo spirito vostro »). Ciò spiega il facile passaggio della seconda persona dal singolare al plurale (vv. 3-6, 22-25). Il prologo (vv. 1-7) è costituito dal saluto unito all'indirizzo ai tre della famiglia (Filemone, Appia ed Archippo) ed alla « chiesa » (1-3) : l'augurio (« grazia e pace ») è letteralmente identico a quello di tutte le epistole paoline (eccetto Col. 1, 2 nel testo critico!). Segue il ringraziamento a Dio (vv. 4-7), in cui loda « la carità e la fede che (tu, Filemone) hai per il Signore Gesù e verso tutti i santi, onde la partecipazione della tua fede diventi operosa nella conoscenza di tutto il bene che è in voi, per Cristo » (v. 6) ; si congratula molto a motivo della « tua carità, perché le viscere dei santi si sono ristorate (secondo la promessa di Gesù: Mt. 11, 28) per causa tua, fratello » (v. 7). Dopo l'insinuante esordio, Paolo introduce la sua richiesta (che — osserva — potrebbe essere « comando », in virtù dell'autorità apostolica e della paternità spirituale) in forma di amorevole raccomandazione (« preferisco esortarti a motivo della carità » v. 9) in favore di Onesimo, Io schiavo fuggitivo, pentito e redento in Cristo (vv. 8-21). La domanda si svolge poi nel quadro dell'eùayysXtov paolino, e procede dalla commossa rievocazione della presente situazione dell'Apostolo all'argomentazione dogmatica che sfocia nella vita in Cristo, unica e sovraterrestre per tutti i credenti senza distinzione. « Io, Paolo, ormai vecchio, ed ora anche incatenato per Cristo Gesù, intercedo per il mio figliuolo, che ho generato (cf. I Cor. 4, 15) nei ceppi » (v. 10). Fino al v. 16 espone i motivi connessi alla persona del suo neofito. « Onesimo (" utile ", donde una delicata paronomasia) ti fu già disutile; ma ora è utile e a te e a me. Te l'ho mandato, e tu accoglilo come le mie stesse viscere» (vv. 11-12). Dopo la sua conversione o « nuova creazione », che ha liquidato tutto il passato (cf. II Cor. 5, 17), spiega l'Apostolo, « avrei voluto trattenerlo presso di me, affinché in vece tua mi servisse mentre sono nei ceppi dell'Evangelo ». Ma, rispettoso dei diritti (legali, convenzionali) del padrone, « non ho voluto fare nulla senza il tuo permesso, né che tu compissi un'opera buona perché costretto, bensì per tua volontà» (vv. 13-14). Ed assurge ai principi supremi dell'economia salvifica (vv. 15-16) : « Forse infatti a tal fine si è separato temporaneamente da te, perché tu lo ricuperi in eterno, e non più quale schiavo ma ben più che schiavo quale fratello diletto; se è tale per me, tanto più per te per ragioni naturali e soprannaturali ». E Paolo, incalzando, conclude (vv. 17-20): «Se dunque mi consideri in comunione con te (per la fede e carità, cf. v. 6), accoglilo come me stesso. Se poi in qualche cosa ti ha danneggiato o ti è debitore, imputalo a me stesso ». E come il debitore che s'impegna legalmente, aggiunge : « Io, Paolo, ho scritto di mia mano : restituirò. Per non dirti che, a tua volta, tu mi devi te stesso. Sì, fratello, fa che io abbia da te questo favore nel Signore. Ristora le mie viscere (cf. v. 7) in Cristo ». E termina con una frase che suggerisce discretamente a Filemone una generosità più piena : « Ti ho scritto persuaso della tua obbedienza (la domanda dell'Apostolo equivale quindi a un " comando ", v. 8 : poiché si basa su motivi irrecusabili), sapendo anzi che farai anche più di quanto dico » (v. 21), concederai cioè addirittura l'affrancamento al tuo schiavo rigenerato in Cristo, divenuto quindi tuo « fratello diletto » (v. 16). Nell'epilogo, contraccambiando Filemone con una consolante prospettiva, Paolo annunzia come probabile la sua venuta in casa di Filemone, poco dopo che vi sarà rientrato Onesimo. « Contemporaneamente prepara anche a me ospitalità; spero infatti che, mediante le vostre preghiere, vi sarò concesso » (v. 22). Le norme di ospitalità ricorrono nella Didaché 11, 3-6 (cf. J.-P. Audet). Questo accenno dell'Apostolo al suo prossimo proscioglimento induce a supporre che la lettera a F. per porre termine all'avventura di Onesimo fu scritta al termine del biennio della prigionia romana 61-63. Ignoriamo però se il progetto di raggiungere fra breve la casa di F. a Colosse, potè realizzarsi. John Knox, dal 1935, propugna una nuova ipotesi. Il vero padrone di Onesimo non sarebbe Filemone nominato per primo, bensì Archippo. Volendo ottenere l'affrancamento dello schiavo per associarselo nel ministero evangelico, Paolo ne perora la causa presso Archippo; ma siccome non lo conosce, indirizza la lettera a Filemone suo amico, che sembra preposto alle chiese della valle del Lico. Non fidandosi troppo di Archippo, l'Apostolo incaricherebbe di condurre a termine la pendenza Filemone e l'intera comunità (v. 2). Vuole che i fedeli di Colosse leggano la « lettera ai Laodicesi » (Col. 4, 16); Knox identifica questa con la lettera a Filemone, la cui residenza episcopale sarebbe stata Laodicea. Vuole che, dopo averla letta, insistano presso Archippo perché disimpegni il «servizio» richiestogli (ibid. 4, 17) di cedergli Onesimo. J. Knox ritiene di avere con tali precisazioni chiarito molti punti oscuri (pp. 30-34, 51-57); ma la sua elaborata, troppo ingegnosa, ricostruzione critico-storica ha riscosso poche adesioni : suscita più difficoltà di quante non ne risolva. Anche psicologicamente appare forzata, giacché trasforma in simulazione diplomatica uno scritto che si distingue a prima vista per spontaneo abbandono e limpida semplicità di cordiale effusione. Il merito della conservazione di questa breve lettera paolina risale anzitutto a Filemone e alla sua famiglia. Menzionata dal canone Muratoriano (sec. II) che la pone con le tre lettere pastorali, la lettera a Filemone è rivendicata come autentica, contro i pochi critici radicali che la rigettarono, dai « liberali » E. Renan, A. Sabatier, H. J. Holtzmann, C. Olemen, A. Deissmann, A. Jùlicher, ecc. Lo stile, molto ammirato da H. von Soden, è squisitamente paolino. Dopo Erasmo (In Philem., 20), che sfida lo stesso Cicerone davanti alla penetrante suasività di questo rapido biglietto confidenziale, tutti ne rilevano oggi l'insuperabile grazia e suggestività. Già F. W. Farrar istituì un diligente paragone (1892) con le due lettere di Plinio il Giovane a Sabiniano su analogo argomento, prima e dopo l'affrancamento (Epistolae, 1. IX, 21, 24), concludendo per l'inconfondibile originalità e per la totale superiorità, morale e letteraria, dello scritto paolino a Filemone. Rinviando Onesimo al suo padrone, Paolo non intendeva certo consacrare l'istituto della schiavitù allora diffusa. Ma si astiene, sull'esempio di Gesù Cristo, da pose demagogiche e rivoluzionarie. Lascia sopravvivere i potenti che soggiogano i debali e sfruttano i poveri; ma orienta gli animi dei padroni e degli schiavi ai supremi valori immutabili, all'apprezzamento della vera inamissibile libertà, che è interiore e non subordinata alle contingenti sopraffazioni dell'homo homini lupus; afferma la completa eguaglianza di tutti alla luce di Dio in Cristo. In Col. 3, 22-41 (brano contemporaneo a Philem.), Paolo espone come l'obbedienza dello schiavo in Christo è assai più nobile della potenza del padrone spocchioso. Pur obbedendo, il credente « non cerca di piacere agli uomini, ma lavora per il Signore e non per gli uomini » ; sa che presso Dio « non vi è accezione di persone », che tutti sono uguali davanti al Giudice de! bene e del male, e che l'unico padrone tollerabile è quello che riconosce di essere anch'egli servo del « Padrone in cielo ». In tal modo lo schiavo conculcato diventa superiore all'ottuso e truce suo capo. Queste stesse norme di Col. 3, 22-41 che debbono reggere i rapporti tra i cristiani sono ribadite nella Didaché 4, 9-11 (J. P. Audet, p. 338-43). Ormai l'unica gerarchia è quella dello Spirito di Cristo, fonte di libertà (II Cor. 3, 17). Di questa unica libertà ed eguaglianza, per cui occorre rassegnarsi alle temporanee ingiustizie terrene, l'Apostolo era costante assertore (I Cor. 7, 21-22). Chiunque è battezzato è « fratello diletto » d'ogni altro cristiano, sia pur ricco e potente (Philem. 16) : sono infatti parimenti rigenerati quali figli di Dio (Col. 1, 12-14; Gal. 3, 26; 4, 7), ed in Cristo scompare ogni differenza tra lo schiavo e il libero, il capo e il suddito (Col. 3, 11; Gal. 3, 28; I Cor. 12, 13). Questa visione cristiana, aperta anzitutto ai poveri, ai sopraffatti dai « grandi », agli umiliati ed offesi, spezzerà in breve le esteriori catene legali; è l'unica infatti che ha liberato l'uomo dalla schiavitù del mondo con i suoi privilegi e privilegiati, dall'oppressione del potere e della sua pompa con le conseguenti insaziabili cupidigie, dall'assoggettamento alla carne, al peccato e alla morte (Rom. 6, 20). Cristo ci ha tutti egualmente riscattati a caro prezzo (Col. 1, 14; I Cor. 7, 23). Ma, purtroppo, la schiavitù individuale e « di massa » continua ad imperversare illegalmente, anzi si aggrava, perché « lo Spirito del Signore, che è libertà », è soffocato dagli scaltri potenti, arricchiti dal lavoro dei pazientissimi asserviti.
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