Nel Napoli è accaduto anche
questo...
Dietro
le quinte di un palcoscenico immenso. Quasi un secolo di
episodi, retroscena, alcuni inediti, altri parzialmente
noti, oppure già entrati nella storia ufficiale del
Napoli e nei ricordi dei tifosi partenopei. Qui raccogliamo molti
di questi episodi, ma non troverete tutti quelli di nostra
conoscenza, perché di molte vicende azzurre parliamo
altrove, in altre pagine, trattando argomenti specifici,
momenti storici e personaggi di rilievo.
IL VERO
TIFO A NAPOLI COMINCIO’ COSI’
(1905)
– Primo vero atto di tifo collettivo a Napoli.
Molti simpatizzanti si recarono a Bagnoli per assistere
ad un “incontro del secolo”, quello tra il Naples, da
poco fondato, e i marinai della nave inglese “Arabic”,
con ottimi giocatori famosi in patria, presentati come i pionieri del
calcio. Vinse clamorosamente il Naples per 3-2. Erano
praticamente le prime
scene di tifo e di entusiasmo sul campo e per le strade.
Poche righe apparvero sui giornale.
PRIMI
GIOCATORI IN BUSTA_PAGA
(1925-26)
– A Napoli per la prima volta i
giocatori vennero retribuiti come “professionisti”, in
quanto Carlo Carcano ex nazionale, ingaggiato da
Ascarelli come allenatore dell’Internaples (e poi
protagonista di cinque scudetti juventini nel
Trentennio), pretese che
i calciatori si sottoponessero agli allenamenti per
tutta la settimana, senza altri impegni, per assicurare
la forma fisica e studiare gli schemi di gioco. Nel
luglio del '26, a seguito dei gravi incidenti avvenuti a
Napoli nella partita con l'Alba Roma, Carcano, insieme
con la "grande promessa" Ferrari (divenuto poi punto di
forza della Nazionale, dell'Ambrosiana, della Juve e del
Bologna con otto scudetti e due titoli mondiali), scossi
profondamente, diciamo impauriti, per la gravità degli
incidenti, fecero la valigia e notte tempo lasciarono
Napoli per risistemarsi al Nord. Per il calcio
napoletano fu una perdita pesante,
soprattutto in quel periodo . Nella foto, i
primi giornali che si occuparono di calcio in Italia
E
COMINCIARONO GLI ILLECITI
(1926-27)
- Nel primo campionato del Napoli in Serie A (il
peggiore della storia con un solo punto conquistato,
grazie al pareggio casalingo contro il Brescia) lo
scudetto fu vinto dal Torino, ma il titolo venne
revocato dalla Federazione in quanto, in occasione del derby
piemontese, un dirigente
granata aveva promesso al giocatore juventino Allemandi 50.000
lire per favorire la vittoria dei granata (2-1).
CITTA’
BLOCCATA PER I FUNERALI DI ASCARELLI
(1929-30)
- Primo grande lutto nel Napoli. Ad appena 36
anni, moriva all’alba del 13 marzo 1930, all’improvviso,
di peritonite perforante, Giorgio Ascarelli, munifico
presidente, un napoletano verace della zona Pendino, che
aveva gettato le basi per un grande Napoli, agli ordini
di Garbutt, un dirigente mite, ma intelligente, abile
industriale tessile, di origine ebrea (il che diventò la
sua colpa, quando il Fascismo impedì che fosse intestato
a lui lo stadio che Ascarelli aveva fatto costruire a
proprie spese nel rione Luzzati). Personaggio operoso e
schivo, quando fu inaugurato lo stadio, con una vittoria
sulla Juve, invano fu cercato tra le autorità presenti:
per non farsi notare se n’era andato in un settore di
second’ordine a godersi da solo, tra la folla, un
momento che era soprattutto suo. E quando, diciotto
giorni dopo l’inaugurazione dello stadio, si svolsero i
suoi funerali, questi furono imponenti e portarono i
resti dell’amato presidente da Villa Bice, al 169 di Via
Posillipo, fino al cimitero ebraico, percorrendo tutta
la città, tra tanta folla, per strade chiuse al
traffico. Lasciò molto rimpianto ed un Napoli costruito
per grandi traguardi. La squadra in ritiro ad Arese,
vicino Milano, si mise in treno venerdì pomeriggio,
partecipò ai funerali il sabato e subito dopo, sempre in
treno (seconda classe) raggiunse Milano, dopo una notte
scomoda, in tempo per l’incontro col Milan. Nel ricordo
di Ascarelli, gli azzurri vinsero 3-0. Nella foto, a
destra, i funerali del presidente Ascarelli nel centro
di Napoli, tra una folla immensa e commossa.
LO "SPOGLIARELLO" DI SALLUSTRO
(1929-30)
– La prima vera sfida diretta tra Attila Sallustro e
Peppino Meazza (divenuti grandi rivali dopo che il C.T.
Vittorio Pozzo aveva improvvisamente sostituito in
Nazionale Sallustro con Meazza, a seguito
dell’indisponibilità dell’altro attaccante “napoletano” Mihalic) si
svolse allo stadio Ascarelli il 29 maggio e fu vinta da Attila
con due reti (3-1) sulla capolista. A Sallustro non fu
consentito di tornare a casa sull'auto di un amico,
com'era solito fare (non aveva ancora la "Balilla" che
ebbe poi in regalo).
All’uscita dallo spogliatoio fu issato sulle spalle dei
tifosi e portato in trionfo per le strade nei pressi
dello stadio. Sallustro ci rimise giacca, pantaloni e
cravatta, presi come "cimeli" dagli entusiasti
tifosi azzurri.
VIETATO
DARE DEL TU AI GIOCATORI DI GARBUTT
(1930-31) - Sulla severità, sulla
disciplina ed il senso del rispetto dell’allenatore Garbutt, ecco un ricordo di Athos Zontini, giocatore di
quel Napoli e poi medico sociale. “Esistevano allo
stadio Ascarelli tre spogliatoi (oltre a quelli per gli
ospiti e per l’arbitro). Ebbene nello spogliatoi della
prima squadra potevano accedere solo i titolari e le
riserve che facevano parte della rosa della prima
squadra. Poi c’era uno spogliatoio delle “riserve”
destinato alla squadra B e a qualche allievo di rango
superiore. Il terzo locale era riservato ai ragazzi e ai
boys azzurri.
Era proibito in modo assoluto accedere
allo spogliatoio della prima squadra: bisognava bussare,
ottenere il permesso per entrare, e spiegare che cosa si
voleva. Guai a chi avesse osato mancare alla consegna...
Inoltre, ragazzi e boys erano diffidati dal prendersi
confidenze con i titolari o chiamarli semplicemente per
nome. Si aveva il dovere di chiamarli “signor Vojak”,
“signor Sallustro” e dare loro del lei o del voi.
Chiunque, infine, avesse avuto cose personali da
riferire all’allenatore poteva farlo solo presso la sede
sociale nella stanza riservata al tecnico, giacchè “al
campo si viene soltanto per l’allenamento. Le cose
private le sbrighiamo fuori di qui…” diceva Garbutt”.
Il mister aveva 46 anni quando arrivò a Napoli. Dai 16 ai
29 anni aveva giocato da attaccante prima con i
Blackburn Rovers e poi per nove anni nell’Arsenal di
Londra, finchè non gli ruppero un ginocchio. Fu ottimo
attaccante (ala destra della Nazionale inglese) e valido
artigliere albionico sul fronte francese durante la
prima Guerra Mondiale (4 anni di guerra, 3 medaglie al
valor militare e una ferita al ginocchio destro). In
Italia Garbutt da allenatore guidò, per sette anni, il Genoa
(tre scudetti) e per due la Roma. Passione per i cavalli
e per il buon vino. Con lui in panchina il Napoli giocò duecento
partite e ne vinse quasi la metà, novantadue,
pareggiandone quarantadue. Nella foto a sinistra
Garbutt a bordo campo; in quella a destra gli azzurri
nello spogliatoio dello stadio Ascarelli,
ovviamente senza i confort di cui godono oggi i
giocatori.
PIOLA
RUPPE LE OSSA A ZIO CAVANNA
(1930-31)
- Il grande
portiere del Napoli di Garbutt degli anni Trenta, Peppe
Cavanna, era, com’è noto, zio del grandissimo e
plurinazionale Silvio Piola. Ricordiamo il loro rapporto
di parentela attraverso il ricordo dell’attaccante
campione del mondo: “ Il rapporto di parentela era molto
stretto. Cavanna era fratello di mia madre. Giocò sei
volte in Nazionale B e fu anche convocato da Pozzo per i
mondiali del 1934, come riserva del famoso Combi. Io me
lo trovai di fronte quando esordii nella Pro Vercelli, e
lui giocava nel Napoli. Ricordo che nella prima partita
del girone d’andata nel campionato 1930-31 a Napoli
fummo battuti per uno a zero con un gol di Sallustro, ma
la squadra azzurra finì la partita in dieci uomini
perché nel parare un mio forte tiro, in tuffo, Cavanna
si fratturò la clavicola (rimase fuori squadra per
undici partite sostituito da Marietti). Nel girone di
ritorno ci prendemmo la rivincita e su sei gol che la
Pro Vercelli segnò quel giorno a Cavanna (6-3), tre
furono proprio miei. Se la prima volta avevo
involontariamente ferito mio zio, la seconda lo colsi
nel morale e nell’amor proprio. Dopo il sesto gol
fui io stesso a raccogliere il pallone nella rete,
dicendogli ironicamente: “Lascia fare a me, zio, che
ormai sei stanco…”. Mi perdonò questo affronto soltanto
quando dedicai a lui i gol del mio esordio
internazionale al Prater di Vienna". Nella foto,
Cavanna con la maglia della Nazionale.
IL FASCISMO DICHIARO’
GUERRA AGLI STRANIERI
(1932-33)
– Anche il Napoli fu costretto
a rivedere i suoi progetti di rafforzamento, in seguito
alla decisione del Fascismo (il calcio, droga dei
poveri, ormai era nelle mani del regime che si impadronì
di tutte le cariche federali finite nelle mani di
uomini in camicia nera), decisioni che prevedevano
l‘esclusione degli stranieri dal nostro campionato.
Porte aperte, invece, per gli oriundi, cioè i figli
degli emigranti italiani (moltissimi) che potevano
usufruire di doppio passaporto e quindi in condizione di
essere tesserati. Il Fascismo ripulì anche il calcio da
espressioni e da nomi stranieri. Proibito dire “penalty” imvece di rigore, “corner” invece di calcio d’angolo.
Alcuni
giocatori nati in terre redenti furono invitati ad
italianizzare i loro cognomi. E così l’attaccante del Napoli Vojak divenne Vogliani, Colausig diventò Colassi,
Kuffersin divenne Cuffersin, tanto per citare i più
noti. Nella foto, Umberto II di Savoia assiste ad un
incontro del Napoli nella tribuna Autorità dell'
Ascarelli.
LE TENTAZIONI DELLE
BALLERINE DI MACARIO
(1932-33)
- L’allenatore azzurro Garbutt esercitava il
suo controllo sui calciatori in maniera assillante.
Spesso impedì a qualche azzurro scappatelle notturne
specialmente negli alberghi dove alloggiava la squadra.
Memorabile, nel 1933, fu la notte bianca trascorsa
insieme con il massaggiatore Beato nell’Hotel Sitea,
dove la squadra era in attesa dell’incontro con la
Juventus. In quest’albergo erano ospiti anche le
ballerine della rivista di Erminio Macario, notoriamente
le più belle e formose tra quelle che calcavano il
palcoscenico. Il feeling tra queste affascinanti ragazze
e quei baldi giovanotti fu immediato. Garbutt intravide
il pericolo, alla vigilia di una partita così importante
e montò la guardia col fido Michelangelo Beato nei corridoi. Ogni
tanto qualche azzurro faceva capolino dalla sua stanza,
ma veniva ricacciato in stanza dai due nervosissimi
e severi vigilantes napoletani. Ma “le creature si squietarono”
raccontò poi Michelangelo Beato “e persero sonno, tranquillità e
partita” . Un tre a zero in maniera balorda che dette
modo negli spogliatoi a Garbutt di fare una strigliata
solenne con precisi atti di accusa agli azzurri
esuberanti.
E
INVECE DELLA "CREATURA", LAURO EBBE IL NAPOLI
(1935-36)
- Nel 1936, il 15 marzo, arrivò al vertice
della società il Gr. Uff. Comandante Achille Lauro,
armatore. Già come vicepresidente al fianco dell’ing.
Giuseppe Savarese,( successore di Giorgio Ascarelli e di
Giovanni Maresca di Serracapriola) Lauro aveva mostrato
le sue capacità, severo, a volte spietato, personaggio
pratico, un fascino tutto particolare, in linea con il
piano economico del presidente Savarese, il quale
durante la sua gestione aveva ridotto il passivo da 800
mila lire a 266 mila. L’Ambrosiana aveva versato al
Napoli 190 mila lire per l’acquisto di Ferraris II e per
il resto provvide Lauro. E il bilancio fu salvo. Fu il
primo atto concreto di don Achille. Si narra che
Savarese, nella sua veste anche di Federale, prima di
partire per l’Africa Orientale, dove aveva deciso di
combattere con le camicie nere, chiamò Achille Lauro e
gli preannunciò la decisione del Partito Fascista: “
Caro Comandante, ti affiderò una mia creatura. Abbine
cura”. Al che Lauro si sarebbe preoccupato di avvisare
la moglie, donna Angelina, di preparare una bella stanza
per il nuovo arrivato. Quando Savarese gli inviò il
“malloppo” cartaceo della Società per metterlo al
corrente della situazione, don Achille capì l’equivoco e
chi fosse in realtà la “creatura”. Il Comandante, nello
spirito suo e del momento storico, da Presidente
cominciò subito ad economizzare, nella conduzione della
Società (spostò la sede in una sola stanza presso la sua
Flotta in Via De Petris e tagliò il numero del
personale), riducendo tutto nella gestione dei
giocatori, nelle spese, limitando le “uscite” allo
stretto necessario. Un’opera di bonifica che continuò
nel tempo, ma che col passare degli anni non impedì al
Napoli di accumulare grossi deficit. Nella foto,
Lauro.
DON
ACHILLE
SEMPRE SPECIALISTA IN MULTE E IN RITIRI
(1937-38)
– Cominciò con Lauro
presidente nel 1937-38, la la
lunghissima serie di multe comminate ai giocatori da
Achille Lauro, che detiene un record in materia. Lauro è rimasto nella storia come il presidente che più di
tutti ha usato l’arma delle multe pecuniarie per colpire
i giocatori azzurri “inadempienti”, multe alle quali
spesso aggiungeva ritiri punitivi (a volte a spese degli
stessi
calciatori!!!). Cominciò, quindi, proprio nel 1937-38, fresco
presidente, dopo la partita inaugurale persa contro la Samp a Napoli. Il Comandante proseguì con insolita
frequenza negli anni successivi, fino agli Anni
Sessanta, finchè si trovò al timone della società: ogni
volta che ravvisò uno “scarso rendimento” appioppò
ai giocatori multe salate.
32 RIGORI PARATI DA
SENTIMENTI II
(1937-38)
– Cominciò il 26 settembre 1937 in Roma-Napoli
la lunga serie di rigori parati dal portiere napoletano
Sentimenti II, Arnaldo, grande specialista in materia.
Quel pomeriggio Sentimenti II parò un penalty di Fulvio
Bernardini. Nella sua lunga carriera in azzurro, dal
1934 al 1947, Cherie , com’era chiamato Sentimenti II a
Napoli (perchè cantava sovente la canzone "Cherie-cherie"),
tra gare di campionato, di Coppa ed amichevoli, parerà
ben 32 penalty, dodici dei quali consecutivi nella
stagione 1941-42. Curioso che a mettere fine a quella
lunga imbattibilità fu proprio il fratello, Sentimenti IV, anche lui portiere, detto “Cochi”, passato poi alla
Juve per una luminosissima carriera. Capitò che in
Napoli- Modena il 17 maggio del 1942, all'Ascarelli di
mattina (spesso durante il periodo di guerra si giocava
a mezzogiorno perché a quell’ora i bombardamenti ed i
relativi allarmi erano meno frequenti) Sentimenti IV , che
oltre ad essere un apprezzato rigorista, sapeva giocare
anche all’attacco, sul 2-0 per il Napoli, volle tirare
un penalty concesso dall’arbitro Bellè. Tra il sorriso
beffardo di Sentimenti II, forte del fresco primato,
abituato a ben altri tiratori (aveva neutralizzato anche
Piola, Meazza e Frossi), il fratello modenese realizzò il rigore con una
finta ed una cannonata all'incrocio dei pali, che piegò Arnaldo, nonostante
questi avesse intuito la traiettoria. Sentimenti II,
ovviamente stizzito, non tanto per il gol del 2-1, ma
per l’inviolabilità interrotta, inseguì il fratello per
buona parte del campo… Arnaldo Sentimenti, classificato
come II della serie, era nato a Bomporto, vicino Modena,
ed era il secondo di una dinastia di cinque fratelli,
tutti dedicatisi al calcio, ben quattro dei quali
arrivati sul palcoscenico della Serie A: oltre al
napoletano Arnaldo, c’erano Vittorio (III), Lucidio (IV,
anche lui portiere, come abbiamo visto) e Primo (V).
Arnaldo Sentimenti giocò nel Napoli dal 1937 come
riserva del grande Cavanna, ed era dotato di un gran
senso della posizione che lo favoriva nell’affrontare i
calci di rigore. Smise dopo dodici stagioni in azzurro e
227 presenze.
Sentimenti II è stato uno dei più grandi portieri
italiani di tutti i tempi, ma aveva un carattere
litigioso, tanto da venire varie volte espulso,
evenienza rarissima per un portiere. In uno di questi
casi gli venne decurtato il premio di partita: mille
lire, una cifra cospicua a quei tempi, quando si sognava
e si cantava di poterle avere. una volta al mese.
Sallustro chiese ai dirigenti di poter rinunciare al suo
premio in favore del compagno. I dirigenti azzurri,
colpiti dalla generosità di Attila , perdonarono
il gesto d'intemperanza del portiere e gli assegnarono
il premio che gli spettava.
Da sottolineare che Sentimenti II,
nell’ultimo campionato disputato con il Napoli, operò
anche nelle vesti di allenatore. Sul finire della
stagione, infatti, subentrò a Giovanni Vecchina che a
sua volta era stato chiamato a sostituire l’uruguajano
Michele
Sansone. Sentimenti Si stabilì e mise famiglia a Napoli, fu molto
popolare ed amato al Vomero. Nella foto,
un'eccezionale immagine dei quattro fratelli
Sentimenti, tutti insieme: da sinistra, il quarto, il quinto, il terzo
ed il secondo, il "napoletano".
IL GOL DI RAF VALLONE E
LA “FUGA” DELLA FIGLIA
(1938-39)
- Il 27 novembre del 1938 a
Torino contro i granata, il Napoli affrontò il Torino
che schierava
un
giovane calciatore di origine calabrese, Raffaele
Vallone, che segnò anche uno dei tre gol del successo
granata. Vallone militò nel Torino tre stagioni (23
presenze, 4 gol), ma poi insoddisfatto delle prospettive
calcistiche, preferì dedicarsi all’arte ed al
giornalismo. Ritornerà alla ribalta nel dopoguerra come
divo del cinema ed attore di teatro. Il suo nome d’arte
era Raf Vallone, il suo primo successo “Riso Amaro” con
Silvana Mangano. Moltissimi anni dopo, durante il
periodo maradoniano, rispuntò il nome di Vallone in
casa-Napoli. Fu quando la figlia di Raf Vallone, la
bellissima Eleonora, pittrice, attrice e poi
giornalista, si presentò nel ritiro degli azzurri, ma fu
gentilmente invitata ad andar via dall’allenatore
Bianchi, intento a controllare la “serenità” dei
giocatori azzurri. Nella foto, Eleonora Vallone
fotografata nei suoi anni di splendore.
GRAMAGLIA DIVORO’ UNA
VALIGIA DI PANINI…
(1938-39) - Singolare la scommessa vinta
da Bruno Gramaglia, giocatore di rara furbizia e
intelligenza, per diversi anni una colonna del Napoli.
Aveva un appetito formidabile. Pippone Innocenti
raccontava che un giorno, in treno, durante il
trasferimento a Milano, mentre fungeva da accompagnatore
della squadra, aprì ad un certo momento la sua valigia
contenente quaranta panini infarciti con prosciutto che
Pippone aveva portato con se per ogni evenienza:
Gramaglia si...intenerì talmente davanti a quel ben di
Dio che disse a Innocenti e a Sentimenti. “ Se me li
lasciate davanti, li divoro tutti… Anzi faccio una
scommessa: se dovessi lasciarne anche mezzo, pago
il pranzo per tutta la squadra”. La scommessa fu
accettata e dopo un’oretta Gramaglia aveva svuotato la
valigia. Per inciso, Gramaglia ebbe con il Napoli uno
stato di servizio eccezionale: lasciò a 36 anni dopo
11 stagioni e 273 presenze.
RECORD:
9 PALLONI SUI PALI DEL NAPOLI
(1939-40)
- Il Napoli stabilì un
record molto particolare , sia pure al passivo. Durante
il derby Lazio-Napoli del 1
dicembre 1939, il dominio laziale sugli azzurri si concretizzò con
una doppietta di Silvio Piola e ben nove tra pali e traverse,
colpiti dai capitolini nella porta
difesa da Sentimenti II. Ben 32 furono i tiri in porta dei romani
(e due soli del Napoli). Alla fine la Lazio fu costretta
ad accontentarsi di un successo per 2-0, netto ma non
roboante.
GALEAZZO
CIANO TRAMO’ CONTRO IL NAPOLI
(1941-42) - Prima retrocessione
del Napoli in B nel 1942. Ma alla vigilia dell’ultima
decisiva giornata una losca trama fu attuata ai danni
della società azzurra. La prima volta nella storia con
conseguenze pesanti, come la retrocessione, ma non fu
l’ultima. La famiglia di Galeazzo Ciano (ministro e
genero di Mussolini) , di origine livornese, si mosse
attivamente per evitare la retrocessione del Livorno. Il
segretario di Ciano convocò i Federali di Genova e di
Milano e ai due
– si racconta – venne ventilato una
possibile destituzione dall’incarico qualora il Livorno
fosse retrocesso. Entrambi i Federali si mossero,
quindi, per catechizzare le società ed i giocatori del
Milan (perché non si impegnassero contro il Livorno) e
del Genoa (perché giocassero allo spasimo contro il
Napoli nella partita decisiva nell’ultima giornata). Il
piano riuscì perfettamente. Il Milan si fece battere
clamorosamente in casa dal Livorno (2-0) mentre il Genoa lottò alla morte e
travolse per tre a zero il Napoli di Sentimenti, Pretto,
Gramaglia, Busani, Venditto(reduce da due successi
esterni a Firenze e a Bologna e la domenica prima da un
trionfale 4-1 sulla Juve), mentre l’Ambrosiana lasciò all’Atalanta,
altra pericolante, il punto
della salvezza. Conclusione: Napoli retrocesso e Livorno
salvo! La famiglia Ciano ebbe modo di festeggiare
l'evento positivo. Per la cronaca: lo stadio di Livorno
era intestato ad Edda Ciano Mussolini. Nella foto, Galeazzo Ciano tifoso del Livorno;
a destra il primo gol del Genoa (Trevisan di testa)
nella partita che determinò la discussa retrocessione
del Napoli all'ultima giornata nel 1941-42.
CAMPIONATO DI GUERRA E DI MORTI
(1942-43) - Durante la seconda
guerra mondiale, Napoli, più di altre città italiane,
diventò, col suo porto e con le istallazioni militari,
l’obiettivo preferito dei bombardieri americani e degli
aerei inglesi della RAF. Una serie terrificante di
attacchi a tappeto martirizzò la città e incrinò il
morale dei napoletani, già scossi da privazioni e
sofferenze. Si contarono più di cento incursioni aeree
con lancio di bombe (c’è chi assicura che furono
addirittura 181) e circa 30 mila morti. Nonostante le
paure, i bombardamenti
e
una città ridotta allo stremo, il campionato venne
portato a termine. Distrutto parzialmente l’Ascarelli
(il resto lo faranno dopo i vandali) la squadra di
calcio di trasferì all'ultimo momento al Vomero. Alcune
partite vennero disputate di mattina – l’orario meno
frequente per i bombardamenti – altre interrotte e poi
riprese dopo il cessato allarme, con fuggi-fuggi
generale dagli spalti. Il Palermo,
essendo stata dichiarata la Sicilia “zona di guerra” non
riuscì a terminare quel campionato anomalo. Nella
foto, ritaglio di giornale stampato nei giorni dei bombardamenti.
SENTIMENTI "UCCELLATO" DA META’ CAMPO E SFUMO’ LA SERIE A
(1942-43)
- Nel campionato di guerra
1942-43, come abbiamo detto, tra mille traversie,
spostamenti di orari per scongiurare i bombardamenti
pomeridiani, ululati di sirene, morte e terrore, Napoli
– città martire – con migliaia di vittime sotto le
macerie, si giocò la promozione
in
Serie A all’ultima giornata contro il Modena . E perse
partita (0-1) e promozione (due punti dal Brescia e
quattro dal Modena, finiti in A) in una maniera molto
singolare. Il 6 giugno, si giocava di mattina allo
Stadio del Vomero in emergenza, per l’impossibilità di
utilizzare l’ex stadio Ascarelli bombardato e reso
inutilizzabile dagli Alleati. L’incontro decisivo per la
promozione si trascinò fin quasi allo scadere sullo zero
a zero, con i modenesi ben asserragliati a difesa di
quel punto sufficiente per la promozione. Negli ultimi
minuti il gravissimo errore del portiere azzurro
Sentimenti II e l’inopinata sconfitta. Sentimenti si era
sistemato a…centrocampo (proprio così!) “per uno
spirito di esibizionismo condannabile sotto tutti i
punti di vista” (così fu scritto), quando una
improvvisa fuga di Remondini offrì una palla d’oro ad
Eliani in contropiede e questi uccellò, alto in angolo,
il portiere azzurro in vana rincorsa. Uno a zero per il
Modena e poco dopo tutti negli spogliatoi di fortuna del
Vomero (allora “Stadio Littorio”). Perdere una sfida-
promozione così non è cosa di tutti i giorni. Nella
foto, un'uscita del portiere azzurro Sentimenti II.
CON UN’AUTO SCASSATA IN
CERCA DI RINFORZI
(1945-46)
-
Per il campionato della ripresa postbellica, il Napoli
incontrò molte difficoltà nel mettere in piedi una
squadra. Il presidente in pectore Pasquale Russo ed il
dinamico Gigino Scuotto si misero in giro per l’Italia,
puntando al Nord. Il viaggio venne compiuto a bordo di
una macchina malandata, con quattro ruote “lisce” che
sembravano dover scoppiare da un momento all’altro. Si
narra che furono rinforzate con delle cinture di
pantaloni. Allora i pneumatici erano cosa rara da
trovare. Russo e Scuotto furono anche costretti a
riposare nell’auto diverse notti (una volta nel freddo
della Radicofani) perché i letti di certi alberghi,
abbordabili a prezzi convenienti, erano sovente popolati
da animaletti. Il loro viaggio fruttò, comunque, un bel
gruppo di giocatori tra cui Sansone (anche allenatore),
Andreolo, Lustha, Gallanti, Barbieri e Rosi.
UNA
SCARPETTA VINCENTE IN VETRINA
(1945-46)
- Fu il campionato della scarpetta di Di
Costanzo esposta nel Bar Fiore alla Ferrovia, dopo il
gol decisivo di Egidio e la vittoria a Firenze, e poi
del crollo della balconata della tribuna dello stadio
del Vomero sul gol di Lustha contro il Bari, con oltre
100 feriti. Il giorno dopo il successo di Firenze nel
ritrovo degli sportivi del Vasto, il Bar Fiore, di
proprietà del compianto Francesco Fiore (padre di
Roberto Fiore), comparve in vetrina, tra liquori,
pasticcini e caramelle, la scarpetta di Di Costanzo,
“smarrita” insieme con la valigia di Di Costanzo nel
ritorno della squadra a Napoli. Francesco Fiore, che era
anche un poeta dialettale, compose in tutta fretta
questa quartina che figurò anch’essa in vetrina: “Chesta
è ‘a scarpa e Di Costanzo/ che signanno ‘e renza ‘e
renza/ ha inguaiato l’esistenza/ dei tifosi di Firenze.”
Dell’episodio del crollo allo stadio parliamo a parte.
Qui aggiungiamo che, a seguito dell’annuncio del grave
incidente dato da Nicolò Carosio radiocronista allo
stadio, tutte le strade che allora portavano al Vomero
furono, subito dopo, invase da napoletani in cerca di
notizie dei loro familiari. Solo a sera la situazione si
normalizzò. Nella foto, a sinistra, Di Costanzo autore del
gol decisivo a Firenze, uno dei primi giocatori
napoletani messisi in luce nell'immediato dopoguerra con
la
maglia azzurra
PRETTO TRAVESTITO DA
POLIZIOTTO
(1946-47)
-
La deludente prestazione azzurra contro la
Lazio allo stadio del Vomero (pareggio per 0-0) determinò una dura contestazione dei
tifosi, al grido di “venduti, venduti!”. Qualcuno
lanciò anche delle pietre in campo contro gli azzurri ed una colpì il
bollente terzino napoletano Pretto, che la rilanciò
sdegnosamente sugli spalti contro un gruppo
di teppisti.
Mario Pretto, sangue caliente, rischiò l’aggressione della folla
inviperita e
delusa che premeva intorno agli spogliatoi, dopo lo 0-0
finale . Si salvò fuggendo vestito da agente della P.S.
In quello stesso campionato da registrare la salvezza
ottenuta dalla Roma al Vomero con una clamorosa vittoria
per 3-0, alla terz'ultima giornata. Con quel trionfo
inatteso, la Roma evitò la B classificandosi a due punti
dal Brescia, retrocesso con Venezia e Triestina. Il
Napoli, ormai in zona sicurezza, per l'occasione
mise in campo una "strana" formazione...sperimentale,
segnò una doppietta Krieziu che nella stagione
successiva fu trasferito dalla Roma riconoscente "a
prezzo scontato" al Napoli.
Nella foto, in alto, a destra, un duello tra l'arcigno Pretto e
l'intramontabile Silvio Piola durante un Napoli-Juventus, nell'immediato dopoguerra.
QUELLA
PARTITA “COMPRATA” A BOLOGNA
(1947-48)
- Dopo il successo del
Napoli a Bologna per 1-0 con gol di Krieziu proprio
all'ultimo minuto della partita, la società
azzurra finì sotto processo. Secondo l’accusa, l’attaccante Ganelli aveva tentato di corrompere i rossoblu Taiti,
Cappello ed Arcari, mentre. Paolo Innocenti, di origini
bolognesi, gli aveva tenuto bordone, col beneplacito
del presidente Muscariello. Innocenti se la cavò con tre
anni di squalifica, Ganelli e Muscariello furono radiati, ma in
seguito il presidente napoletano ottenne la riqualificazione. Il
Napoli finì in fondo alla classifica e retrocesso
all’ultimo posto, insieme con Salernitana, Alessandria e
Vicenza. Il Napoli, comunque, sarebbe stato egualmente
retrocesso anche se non fosse stato punito per
l'illecito. Si era classificato, infatti,
al quart'ultimo posto e quindi era già in Serie B. Fu sono
una brutta pagina sportiva. Nella foto, un intervento
difensivo di Andreolo e Pretto nella partita vinta dal
Napoli a Bologna, con un gol in zona
Cesarini.
GRAZIE ALL’ARBITRO, UN FURTO A SAN SIRO
(1947-48) – A
San Siro verso la conclusione del torneo 1947-48, il 20
giugno 1948, all'Arena, fu commesso ai danni del Napoli
contro l’Inter uno dei più clamorosi, scandalosi
furti che la storia ricordi, frutto proprio del
differente peso specifico tra la barcollante, modesta
società azzurra e la raccomandatissima, gloriosa (ma non
quell’anno), ricca
squadra
nerazzurra. Uno scontro, insomma, tra poteri forti e
deboli. Il Napoli, in lotta per la salvezza, affrontò a
tre giornate dalla fine l’Inter anch’essa impegnata in
zona retrocessione. Arbitro Bonivento, assoluto
protagonista della sconfitta degli azzurri per 1-0 con
gol di Lorenzi. Il direttore di gara arbitrò a senso
unico, dando chiara l’impressione di voler
affossare gli azzurri verso la B a tutto vantaggio dell’Inter
di Franzosi, Guaita e Lorenzi. E così fu. Bonivento
annullò un gol regolare di La Paz – come riconobbe poi
tutta la stampa obiettiva presente a San Siro -
espellendo peraltro l’attaccante Barbieri e l’allora
allenatore Sentimenti II. L’Inter vinse e si salvò.
Bonivento non arbitrò più. Il suo errore fu anche
dimostrato dalla "Settimana Incom" , il notiziario
settimanale che veniva proiettato nei cinema ed
era l'unico modo - a quei tempi lontani dalla Tv e dalle
moviole - di vedere sullo schermo cinematografico (prima
del film in programma) la sintesi delle partite più
importanti, oltre agli avvenimenti di rilievo. Non bastarono due
vittorie successive (5-0 alla Lucchese e 1-0 sul Bari)
agli azzurri per evitare la B: finirono quart’ultimi e
quindi retrocessi insieme con Salernitana, Alessandria e
Vicenza. A fine campionato poi sopraggiunse la condanna
del Napoli per un illecito nella partita vinta a Bologna
(1-0, gol di Krieziu all’ultimo minuto) e il Napoli fu
addirittura retrocesso all’ultimo posto. Ma quando
Bonivento determinò la sconfitta "salva-Inter" a San Siro non era
certamente al corrente di quanto era successo a Bologna.
La condanna e la macchia restavano indelebili, come del
resto, testimonia il resoconto del grande Silva, il
giornalista che accompagnò la sua “disegnata” sul Calcio
Illustrato con parole di fuoco contro l’arbitro. A fine
gara la Polizia fu costretta ad intervenire per
proteggere l'arbitro dalla reazione degli azzurri.
Nella foto, la parte della “disegnata” che bolla
Bonivento, discusso direttore di gara a S.Siro. E' leggibile fin dall'inizio il giudizio severo
sull'arbitraggio.
LA TATTICA DI DE MANES
(1948-49) -
Vecchio calcio, ruspante, semplice, naif, vero,
romantico, ancorché pasticcione, non ancora ingordo di
business e di tattica. A quel tempo, alla fine
degli anni ’40,
funzionava così: Gigione De Manes, popolare personaggio
calcistico napoletano, in coppia con Giovanni Lambiase,
venne nominato allenatore al posto di Farfallino Borel,
silurato. Lui adibito alla strategia, alla tattica;
mentre il “mago” Lambiase, si prendeva cura del lavoro
sul campo. Già, la tattica: De Manes, in silenzio,
fissava a lungo i giocatori negli occhi, prima della
partita, nel ventre dello stadio del Vomero, poi
indicava la strategia da seguire. “Guagliù, oggi s’adda
iucà!”. Lapidario, basta e avanza. E quand’era più
loquace ordinava ai giocatori schierati sul campo per
l’allenamento: “Disponetevi in un circolo quadrato”. E
gli azzurri, pazienti, eseguivano…Chissà come.
E AL
"VOMERO" RIAPPARVE IL CIUCCIO
(1949-50) - Il ciuccio, simbolo storico del Napoli,
che aveva fatto la sua prima apparizione sul campo Ascarelli, all’inaugurazione dello stadio, il 23 gennaio
del 1930, riapparve su un terreno di gioco nel 1950, il
23 giugno, quando in occasione dell’ultima partita della
stagione contro il Catania ( 2-1 con doppietta di
Suprina), i tifosi organizzati (c’erano anche allora, ma
meno esigenti e più affiatati con la società)
festeggiarono al Vomero il ritorno in Serie A del
Napoli di Monzeglio. Intorno all’asinello bardato di
azzurro c’erano tra gli altri due capi storici del tifo
azzurro, ‘o chiattone (Carmine D’Alpino) e ‘o
ricciulillo (Gennaro Notarangelo, il “re di Forcella”),
protagonisti di altre iniziative e organizzatori dei
festeggiamenti per la promozione. Nella foto, il giro
di campo dei tifosi azzurri con il ciuccio bardato a
festa, dopo la promozione nel '50.
IL
PRESIDENTE VITTIMA DI UN INCENDIO
(1950-51)
- Per la seconda volta, un avverso destino
stroncò la vita di un presidente azzurro, Egidio Musollino, che – come Ascarelli – aveva gettato le basi
per il rilancio del Napoli. Il primo passo era stato il
ritorno in Serie A. Una sera di marzo del 1951 un
violento incendio scoppiò nei pressi dell’abitazione del
presidente, e precisamente nei locali del famoso
ristorante D’Angelo in Via Aniello Falcone, incendio che
spinse molti abitanti della zona, e lo stesso Musollino,
a riversarsi in strada per rendersi conto da vicino
della portata dell’incidente e seguire l’opera di
spegnimento. Il calore intenso del fuoco, in contrasto
con la temperatura fredda della notte, determinò in
Egidio Musollino delle complicazioni polmonari che in
breve tempo portarono alla morte il presidente. Nella
foto, il presidente azzurro Egidio Musollino col
berretto universitario regalatogli da un
gruppo di studenti, tifosi azzurri.
CASARI
NON… SAPEVA E PARO’ DUE RIGORI
(1950-51)
-
17 giugno del '51, ultima giornata di campionato. Il
Napoli ormai tranquillo nella pancia della classifica
doveva giocare a Padova , contro una squadra
tremendamente compromessa nella lotta per la salvezza. I
patavini dovevano vincere per non retrocedere. Il
Napoli, invece, era già impegnato nella campagna di
potenziamento ed aveva già gettato molte rete, qualcuna
anche a Padova e precisamente per un attaccante. Si
“narra” che i dirigenti veneti si raccomandarono al
dinamico “reggente” azzurro Gigino Scuotto di non
infierire, ottenendo un sorriso ed una promessa
di…scambio merce. Dopo di che - pare – che venne
sensibilizzato qualcuno della vecchia guardia azzurra di
sicuro affidamento, primo fra tutti l’anziano ma ancor
valido Gramaglia. Certo è che il Napoli alla mezz’ora
mise in condizione il Padova di tirare un rigore.
Sembrava un buon avvio e, invece, ecco Casari strepitoso
dire di “no” con una gran parata. Fu come fu, la difesa
azzurra tre minuti dopo cadde di nuovo nel fallo. Ancora
un rigore, concesso dall’arbitro Silvano, e nuova
eccezionale respinta di Casari che sventò prima il
penalty e poi neutralizzò anche il successivo tiro
ravvicinato dei biancorossi, tra gli sguardi risentiti
dei dirigenti patavini e l’imbarazzo di quelli azzurri.
Ma come, si chiesero a Padova, questo è l’aiutino? Ma
forse Casari era l’unico a non sapere? Certamente sì. Il
Padova alla fine vinse lo stesso per 2-0 quella strana e
dura partita , con una doppietta dell’argentino
Martegani, e si salvò grazie a quel successo, ai danni
nientedimeno che del Genoa e della Roma. Sembra che al
90’ non ci fu nemmeno un saluto tra i dirigenti delle
due sponde. E al Napoli ed al suo”reggente povero”
Gigino Scuotto toccò di rivedere i programmi della
campagna acquisti, puntando su altri lidi. Nella
foto, un intervento di Casari durante quella famosa gara
di Padova.
L’ESTROSO
BACCHETTI MORI’ IN CARCERE
(1950-51) Antonio Bacchetti, uno degli acquisti di
quella stagione, fu anche uno dei giocatori più bravi,
più amati, più strani e discontinui del Napoli di tutti
i tempi. La mezzala bresciana – anche in odore di
Nazionale - era dotato di un’immensa classe, di grande
estro, ma alternava sempre alle sue prodezze momenti di
sconcertante apatia. Una domenica per la gara con l’Inter,
Bacchetti non si presentò negli spogliatoi. Monzeglio fu
costretto a chiamarlo attraverso gli altoparlanti del “Vomero”.
Niente. Giocò Gramaglia al suo posto. In tribuna sugli
ultimi gradini, avvolto in un impermeabile, ben coperto
da un cappello a falde larghe e abbassate, gli occhi
protetti da un occhiale scuro, stava fumando una
sigaretta proprio Bacchetti… Rimase in azzurro solo due
stagioni, poi continuò il girovagare per i campi
italiani per finire in un penitenziario di Stato. Qui
Bacchetti fu rinchiuso dopo che, in un momento di
follia, aveva ucciso il presidente di una squadra del
settore giovanile veneto, reo di non aver onorato le
spettanze al mediatore Bacchetti. E nel carcere morì.
Nella foto Bacchetti l'estroso attaccante.
L’ARBITRO A FORMENTIN: “TI ASPETTO FUORI!”
(1951-52)
- Insolita minaccia di un
arbitro ad un giocatore. Avvenne il 6 gennaio del 1952 a
Ferrara. La sconfitta degli azzurri (2-1) fece perdere
le staffe alla mezzala azzurra Formentin che più volte
andò a protestare vivacemente con l’arbitro Massai,
colpevole tra l’altro di aver concesso un discutibile
rigore agli spallini (parato poi da Casari). Alla fini,
l’arbitro infastidito minacciò Formentin: “Ti aspetto
fuori!”, espressione molto frequente tra giocatori in
campo , non
certo abituale tra arbitro e calciatore. Naturalmente, Massai non
aspettò Formentin fuori, ma gli fece affibbiare dal
Giudice Sportivo due
giornate di squalifica.
COL
NAPOLI ANCHE CAMPAGNE ELETTORALI
(1952-53) - Nella storia del
Napoli si registrò nel 1952 il ritorno di Achille Lauro
alla guida degli azzurri. Lauro volle impegnarsi in
prima persona anche perché era balzato alla ribalta
politica col partito monarchico e aveva intenzione di
utilizzare anche il Napoli nella campagna elettorale.
Nel corso degli anni, diverse partite amichevoli furono
così organizzate con finalità politiche, su campi di
provincia. La squadra ne soffrì, in quanto si trattò di
giocare su certi campi ed in alcune località, dove il
terreno di gioco era assolutamente impraticabile, senza
erba, a volte persino roccioso. Una volta gli azzurri
furono costretti a spogliarsi in alcuni box usati per i
cavalli, tra mangiatoie e cumuli di biada, visto che
in
quel campo non esistevano spogliatoi… I tifosi azzurri
restarono colpiti nel leggere in moltissimi angoli della
città striscioni giganteschi con uno slogan che divenne
famoso: “Per un grande Napoli ed una grande Napoli, vota
Achille Lauro”. Il Comandante ottenne così una
schiacciante vittoria elettorale nelle amministrative
del 1952. Comunque, Lauro, sindaco di Napoli, mantenne
le promesse con i tifosi. Quell’anno, oltre a Pesaola e
Vitali, fu acquistato soprattutto Hasse Jeppson,
campione svedese dell’Atalanta, grazie al versamento
record di 105 milioni. Naturalmente – come doveva
avvenire successivamente per Savoldi e per Maradona – la
cifra record spesa per Jeppson, finito in una città –
come Napoli - assillata da tanti problemi, fu
accompagnata anche da assurde polemiche sul sociale,
come se i milioni per l’ingaggio dello svedese fossero
usciti dalle casse del Comune… Nella foto, Lauro
sindaco durante una riunione del Consiglio Comunale dopo
il successo nel 1952.
CASARI
COMPOSE ANCHE UNA CANZONE PER PIEDIGROTTA
(1952-53)
- Bepi Casari, il
gigante buono. uno dei più validi portieri azzurri,
componente della Nazionale ai mondiali di Rio de
Janeiro, molto corteggiato dalle ragazze napoletane,
mise in luce anche la sua vena poetica e canora,
componendo una canzone che i maestri Acampora e Dura
espressero in musica e che il cantante napoletano Pino
Cuomo lanciò nella Piedigrotta. La canzone di Casari
aveva un titolo calcistico “M’ha fatto un gol!” E fu
accolta con curiosità e interesse. Casari aprì anche un
“Bar - Sala corse” in Piazza della Carità. Rotondetto,
ebbe sempre problemi di peso. Da ricordare un episodio
in Vaticano. Durante una visita organizzata dal Napoli,
il portierone azzurro fu presentato a Papa Pacelli,
notoriamente il più ieratico della storia. Mentre tutti
gli azzurri si inginocchiarono di fronte a Pio XII, lui,
bergamasco di estrazione contadina, afferrò la mano del
Papa, quasi stritolandogliela con la sua manona e gli
disse :”Piacere, Casari”. Nella foto, il portierone
azzurro Bepi Casari, dalle mani d'acciaio.
FERLAINO DA GIOVANE FU
SQUALIFICATO A VITA
(1954)
– Il 23 aprile 1954 una data che non c’entra con la
storia del Napoli, ma che ben ricorda Corrado Ferlaino, l’uomo che resse le sorti del Napoli per oltre
trent’anni. Quel giorno sul campo delle “Cotoniere”,
Ferlaino con una squadra del Vomero affrontava per un
Torneo della Lega Giovanile il Vasto. Sul 4-0 in favore
di quest’ultima formazione, la mezzala Ferlaino fu
l’unico ad impegnarsi, alla ricerca del gol della
bandiera. Lo segnò, con un diagonale imprendibile, ma
l’arbitro ravvisò un fuorigioco ed annullò la “perla”
del futuro ingegnere. Ferlaino protestò, si infuriò e
colpì l’arbitro con un pugno violento, che mandò il
giovane signor Perna a gambe levate. E senza aggiungere
altro rientrò negli spogliatoi e si rivestì. Dopo poco
gli arrivò la squalifica a vita. Non si è mai saputo con
precisione quale indulto o amnistia (pare la vittoria
dell’Italia agli Europei) consentì al giovane Ferlaino di tornare a
giocare, sia pure in tornei aziendali.
HASSE JEPPSON SALVO PER
MIRACOLO
(1955-56) Hasse Jeppson, mister 105 milioni ebbe a
Napoli una vita tormentata. Ai successi seguirono
scadimenti di forma, incidenti, polemiche con la
società, scambi di lettere roventi, litigi con Lauro,
con l’allenatore Monzeglio, screzi con Vinicio. Dopo i
trionfi iniziali finì amaramente il suo soggiorno
napoletano (quattro stagioni), accusato tra l’altro di
una condotta non professionale. Gli fu attribuito un
grande amore con la tennista Silvana Lazzarino,
conosciuta durante i suoi frequenti svaghi sulla terra
rossa. Attività che Monzeglio riteneva molto faticosa.
Ma poi nel ’57 Jeppson sposò al Faito la signorina Emma
De Martino, in tutta semplicità. Divenne anche protagonista
di un incidente d’auto mortale. Mentre era in trattative
con emissari dell’Inter per riscattare la lista e
trasferirsi a Milano, si recò più volte a Roma. Fu
proprio di ritorno da uno di questi colloqui, verso la
mezzanotte del 10 settembre 1955, che la sua Alfa 1900
subì un pauroso incidente. La vettura di Jeppson
procedeva ad altissima velocità quando sul nastro di
Latina investì un cane. L’Alfa sbandò, uscì fuori strada
e si capovolse. L’autista morì sul colpo, aveva 23 anni,
e Jeppson fu sbalzato fuori dell’abitacolo e ricoverato
all’ospedale di Latina in condizioni critiche. Nessuno
dei dirigenti azzurri si degnò di farsi vivo. Poi Hasse
riprenderà a giocare nel Napoli, ma a sprazzi e senza
esaltare. Non poteva e non voleva più restare. Aiutò il
Torino a salvarsi. Nella foto, a sinistra, il dottor Zontini
visita Jeppson nell'ospedale di Latina dopo l'
incidente che costò la vita al conducente dell'Alfa,
rimasto bloccato nella vettura, mentre Hasse, per sua
fortuna, fu sbalzato fuori. Nell'altra foto,
Jeppson tennista nel circolo della Villa Comunale
a Napoli.
100
LIRE PER “MISTER 105 MILIONI”
(1955)
-
Nei suoi ultimi anni di
permanenza a Napoli, Jeppson ebbe un rapporto difficile
con la società, anche a seguito di infortuni, polemiche,
cali di forma. Litigi con l’allenatore, prima Monzeglio,
poi Amadei, polemiche con Vinicio, contrasti col
presidente Lauro. Dopo il campionato 1955-56 sarà
costretto ad accasarsi al Torino. Ma nonostante non
fosse più grande come prima, restò sempre nel cuore dei
tifosi. Nel giugno del 1955 per l’ex “mister 105
milioni” fu aperta una sottoscrizione con lo
slogan “100 lire per Jeppson”, come riconoscimento per i
suoi meriti ed in polemica con la società che si stava
muovendo sul mercato per cederlo. Nella foto, il noto
tifoso Chianese consegna un piatto d’argento ad Hasse
Jeppson.
MONZEGLIO
CACCIO’ LAURO DAGLI SPOGLIATOI
(1955-56)
- L’allenatore Monzeglio aveva un caratterino
particolare. Perentorio, esplicito, di forte
personalità. Terzino di classe, già mondiale con Pozzo,
era stato allenatore-partner di tennis in casa Mussolini,
ben inquadrato nella mentalità del regime. Un vero
“sergente di ferro”. Non possedeva automobili ed ogni
mattina andava a piedi allo stadio del Vomero, dopo aver
sentito messa in una piccola chiesa. Amante della
disciplina e della buona educazione. Durante il suo
periodo napoletano ebbe scontri con tutti, con i
giocatori ( in particolare con Jeppson e Vinicio), con i
giornalisti (i più giovani li chiamava “dottorini” in
una città in cui erano tutti dottori ) litigò con gli
addetti del Napoli, con i dirigenti, persino con il
presidente Lauro. Storica la sua frase (per fortuna
smentita poi con i due scudetti) : “A Napoli non avrete
mai nulla di buono!”. Un giorno negli spogliatoi
riprese severamente Comaschi,
per alcune ingenuità di
gioco commesse. Il terzino replicò col suo
caratteristico vocione e per tutta risposta Monzeglio
prese uno zoccolo da terra, invitandolo a tacere e
minacciandolo sotto il viso. Comaschi abbozzò e il
mister, gettato via lo zoccolo, uscì dallo spogliatoio.
Come abbiamo detto, più volte nel mirino di Monzeglio
finì anche il Comandante. Una volta, prima di una
partita al Vomero, Achille Lauro, con la sigaretta in
bocca ed accompagnato da alcune personalità politiche,
entrò negli spogliatoi, interrompendo Monzeglio che
stava facendo alcune raccomandazioni ai giocatori. A
quella irruzione l’allenatore si infiammò e rivolto al
presidente esclamò: “ Comandante e lor Signori, per
cortesia qui non si fuma, vadano fuori a fumare e
discutere perché qui abbiamo da fare!” E con garbo mise
tutti fuori, accompagnandoli alla porta. Un giorno
invitato da Lauro con tutta la squadra trovò vicino al
Comandante persone non gradite, con le quali aveva avuto
degli scontri sui giornali. Ad alta voce disse ai suoi
atleti, facendo il gesto di annusare l’aria, “ Non
sentite niente ragazzi? Andiamo, andiamo via ! Qui c’è
puzza di carogne!…”. Un’altra volta, dopo il primo tempo
di Napoli- Juventus sul neutro di Bari, nel 1955, a
conclusione di un primo tempo in cui il Napoli perdeva
per 1-0, il presidente si precipitò negli spogliatoi,
scagliandosi furibondo contro tutti, accusando i
giocatori di essere “traditori, ladri e fannulloni”.
Monzeglio si risentì dell’atteggiamento di Lauro,
invitandolo ad uscire dallo spogliatoio: “Per adesso,
Comandante, si accomodi fuori – ricorda Zontini,
presente alla scena - e la smetta di questi
apprezzamenti. Qui dentro comando io, sono io che dò gli
ordini e muovo rimproveri, sono io l’allenatore ed il
responsabile fino al termine della partita. Quando
l’incontro sarà terminato, lei sarà padrone di fare
tutto quello che vuole, a testa sua, ed anche di
mandarmi via!”. La partita terminò in parità 1-1 con gol
di Vinicio zoppicante. Monzeglio dopo la “sparata”
contro Lauro restò per altre sei partite, ma a
conclusione della sconfitta interna con l’Inter alla
“sedicesima”, dopo un colloquio tempestoso con Lauro, fu
invitato a prendersi un poco di riposo: lo sostituì
Amadei. Monzeglio fu premiato per i suoi sette anni
sulla panchina azzurra, con una medaglia d’oro.
Spreconi. Ma poi tornò. Nella foto, Monzeglio e Lauro
in panchina al Vomero.
COME VINICIO DIVENTO’
ORIUNDO
(1955-56) L’acquisto di Vinicio, uno dei più amati
giocatori del Napoli, va ricostruito. In occasione
dell’amichevole Roma-Botafogo, Lauro incaricò
l’allenatore Monzeglio di visionare un giovane
attaccante di origine italiana, Dino Da Costa, con ampi
poteri di trattare e concludere l’acquisto, strappandolo
alla Roma. Da Costa era corteggiatissimo dalla società
giallorosa, ma Lauro tentò egualmente. O l'oriundo Da Costa
oppure Vinicio che pure gli era stato raccomandato. Ma,
una volta negli spogliatoi, a fine partita, Eraldo Monzeglio ebbe la conferma. Apprese che Da Costa aveva
già firmato con la Roma. Telefonò al presidente e Lauro
gli rispose. “Erà, piglia un altro, chi vuoi tu, basta
che è all’altezza. Vedi anche quel Vinicio”. Fu così che
Monzeglio si orientò decisamente su Luis Amarante de
Menezes Vinicius che lo aveva addirittura impressionato
più di Da Costa. Nella stessa serata fu firmato il
compromesso. Il prezzo, 50 milioni al Botafogo, piu 10
milioni al giocatore. A Vinicio (come fu ribattezzato a
Napoli) venne però contestata la qualifica di oriundo, alla
quale il Napoli ci teneva molto per una questione di
tesseramento. Stava, insomma, per saltare l’acquisto, in
base ai regolamenti vigenti. Monzeglio aveva fatto presente
che i dirigenti del Botafogo assicuravano che il
giocatore aveva origini italiane. E Lauro non si arrese,
mosse i suoi uomini e nel giro di una settimana presentò
in Federazione un estratto di nascita dal quale
risultava che il nonno di Vinicio, il signor Consalvo
Abilio D’Amarante era iscritto fra i nati del Comune di
Aversa il 5 marzo 1859. Automaticamente Vinicio fu
iscritto nelle liste di leva e gli venne riconosciuta
la doppia nazionalità. Con la sua decisiva
collaborazione, il parroco aversano aveva così risolto
un grosso problema, consentendo al Napoli di tenersi un
attaccante che si rivelerà uno dei più indovinati
acquisti. Senza la qualifica di oriundo di Luis, il
Napoli avrebbe dovuto rinunciare o a Vinicio o a Jeppson.
Vinicio confermò personalmente la sua origine con questa
dichiarazione: " E' stato già chiarito che il parroco
don Graziano di Aversa ha rilasciato al Napoli il
certificato di origine autenticato dalla Curia. In un
registro della Parrocchia, in data 1859, risulta la
nascita di Albilio Consalvo, padre di mia mamma e quindi
mio nonno; e il mio bisnonno materno si chiamava Ignazio
Consalvo. Tutto in regola, quindi". Ma nonostante queste
dichiarazioni, il "caso Vinicio" provocò reazioni e
inchieste in Brasile e in Francia (in vista del
possibile e preannunciato impiego di Vinicio contro i
francesi nell'imminente incontro tra le due nazionali
B). "O Jornal" di Rio de Janeiro inviò alcuni suoi
inviati a Para Minas per intervistare Gerardo Amarante
de Menezes, fratello di Vinicius e quest'ultimo, sotto un
titolo a tutta pagina manifestò la sua più grande
meraviglia, dichiarando testualmente: "Non ho mai saputo che
discendessimo da italiani". Di fronte a tante polemiche
sui "fabbricanti di nonni italiani" anche sui
giornali francesi, alla fine la
nazionale rinunciò a schierare Vinicio contro la Francia
B. Il centravanti, comunque, fece di tutto per proclamare la sua "italianità". Non solo si fece
fotografare per i giornali col berretto da universitario,
ma si candidò persino alle elezioni per le cariche
direttive nell'ateneo napoletano, nella lista di "Juventus
italica". Nella foto riproduciamo il manifesto
elettorale comparso nel marzo del '56 sui muri di
Napoli, con la candidatura ed il saluto di Vinicio agli
universitari .
MALANDRINO ( DI NOME E DI FATTO) TRUFFO’ IL NAPOLI
(1955-56)
- Nell’aprile del 1955,
con Jeppson e Vinicio temporaneamente malandati, si
presentò in prova a Napoli un sudamericano, un certo
Malandrino, di nome e di fatto. Chiese un ingaggio di
cinque milioni per due anni. Il Napoli prima tergiversò
dubbioso sul valore dello straniero, poi accettò di
sganciare i cinque milioni. Malandrino incassò e nella
terra dei furbi, prima di dimostrare il suo vero valore,
nel timore di un fallimento, fece il “colpo”. Mise in
tasca l’ingaggio e scomparve. Dove? Non si è mai saputo.
ESPERIMENTO CON GLI
ARBITRI STRANIERI
(1955-56)
- Nel finale del campionato 1955-56 la Federcalcio, di
fronte ad una serie di errori e di polemiche per gli
arbitraggi,
lanciò un nuovo esperimento: l'utilizzazione di arbitri
stranieri in Serie A. La novità cominciò con gli arbitri
austriaci. Il presidente dell'AIA definì
l'esperimento quanto mai brillante. Furono impiegati
dodici arbitri transalpini.
A S.SIRO
5-0
DEL NAPOLI SUL MILAN!
(1956-57) Uno dei risultati più inattesi e clamorosi
- sia pure parziali - fu quello ottenuto dal Napoli a
San Siro nella stagione 1956-57
(quarta giornata) contro il Milan di Buffon, Maldini,
Schiaffino. Alla fine del primo tempo, Nicolò Carosio
annunziò – via radio - all’Italia del calcio che il
Napoli, di Vinicio, Bugatti, Pesaola, imbattuto in
campionato, stava vincendo clamorosamente per 5-0 a Milano contro i rossoneri. Gol di Posio, e doppiette di Pesaola e
Vinicio. Ma nella ripresa gli azzurri, paghi del netto,
eclatante
risultato, calarono permettendo al Milan di
segnare tre gol con una doppietta di Schiaffino (un gol
su rigore) e Galli. Nella stessa stagione da segnalare
il 4-1 realizzato sul Palermo, quattro gol tutti di Vinicio (il
precedente record era di Jeppson che aveva segnato
ben quattro gol in un 6-3 sull’Atalanta). Nella
foto, a sinistra, il portiere rossonero e della
Nazionale , Buffon, desolato a terra dopo uno dei
due gol di Vinicio, assiste alla festa azzurra.
BUGATTI
SUPERSTAR CON 38° DI FEBBRE
(1957-58) - Storica
la partita di Bugatti a Torino del 24 novembre 1957. Il portiere
azzurro vincitore del “Premio Combi” era emozionato di
dover ricevere dalle mani del presidente juventino
Umberto Agnelli l’ambito riconoscimento, attribuito al
miglior portiere del campionato precedente. Alla vigilia
della partita si temette persino di dover rinviare la
premiazione, a causa di un improvviso attacco febbrile
che aveva colpito Ottavio Bugatti in albergo. Ma il
portiere partenopeo, pur con 37,8 di febbre, volle
scendere egualmente in campo e legittimò il “Premio
Combi” con una prestazione sublime, la più bella della
sua carriera, parando anche l’imparabile. Contro questa
Juve di Boniperti, Sivori e Charles, il Napoli di
Comaschi, Di Giacomo, Vinicio e Bugatti vinse
clamorosamente per 3-1, con i gol di Vinicio, Novelli e
Di Giacomo. Il gigante inglese Charles alla fine
commentò: "Con un altro portiere al posto di Bugatti
avremmo vinto per 7-3. Mai visto un portiere così”.
Ricordiamo un titolone di un giornale: “L’Ottavio
volante”. Fu lo stesso campionato in cui, nella gara di
ritorno con la Juve, Lo Bello arbitrò l’attesissima
partita con migliaia di tifosi azzurri accovacciati
sulla pista, disciplinati, a pochi passi dal terreno di
gioco, per l’impossibilità di stare ammassati sulle
tribune. Di fronte a questa folla straboccante – come
raccontiamo a parte – il Napoli vinse per 4-3 con un gol
all’85’ di Bertucco. E fu un’altra festa
indimenticabile. Nella foto, la prima pagina del
famoso settimanale "Calcio Illustrato" celebra
l'eccezionale partita del febbricitante Bugatti a Torino contro
la grande Juve.
LA
TRIBUNA STAMPA DEL S. PAOLO PER 8
GIORNALISTI !!!
(1957)
- Dopo una lunga
gestazione (la prima pietra era stata posta da Alcide De Gasperi il 27 aprile del 1952), lo stadio "San Paolo" fu
inaugurato ufficialmente con Italia-Svizzera (3-0), il 6
gennaio 1960, dopo circa dieci anni di lavori. ma aprì
eccezionalmente prima, con Napoli-Juve (2-1) il 6
dicembre del 1959. Tra varie ristrutturazioni che hanno
aumentato e diminuito il numero degli spettatori, il San
Paolo in passato ha ospitato fino a 90 mila spettatori
ufficiali, ma in pratica ne ha contenuti anche oltre 100
mila. Basti pensare alla partita dello scudetto 1989
contro la Fiorentina. Pochi sanno, però, che a fronte di
una così larga disponibilità di posti, il progetto
originario prevedeva quattordici posti per le Autorità
(figuratevi, proprio a Napoli…) ed appena otto (avete
letto bene) per la Stampa. Quando i giornalisti,
presenti alla cerimonia di illustrazione del progetto
dell’ing. Carlo Cocchia, chiesero stupiti e interessati
come mai un numero così ridotto di posti per la Stampa
si sentirono rispondere. “ A Napoli ci sono quattro
quotidiani e due settimanali sportivi, avanzano due
posti…”. Fu il giornalista Gino Palumbo a ricordare che
avevano dimenticato tutti gli “inviati” che sarebbero
piombati a Napoli per le partite. E si corse ai ripari.
Questa è storia, non è un discutibile e improbabile
aneddoto. Poi la tribuna stampa del San Paolo fu
ulteriormente allargata e trasferita nella zona
superiore (dov’è tuttora), per interessamento
dell’allora presidente dell’Ussi, Mimmo Carratelli. Ma
in cambio di un maggior numero di posti, i giornalisti
ebbero il dono della pioggia (che attraversa ancor oggi
la struttura metallica). Attualmente la tribuna stampa
del San Paolo prevede la sistemazione di circa 500
giornalisti, per la precisione 476, nei tre settori, compreso
quello riservato agli addetti alle televisioni e alle
radio private. Un
bel balzo in avanti da quegli otto posti progettati… A
questo punto, bisogna ricordare, anche ai numerosi
giovani colleghi d-oggi, come era la cosiddetta tribuna
stampa che i giornalisti napoletani lasciavano nel 1959, quella
dello stadio del Vomero, attualmente il "Collana".
Per entrare nella Tribuna (dove accedevano anche i pochi addetti
all’informazione), c’era un solo cancello dal lato
dell’attuale Via Ribera
(
a quel tempo, lo stadio del Vomero era l’ultima
costruzione di Via Ribera. Gli attuali Vico Acitillo e
Via Mascagni non esistevano ancora: era tutto terreno
verso Fuorigrotta). Da quest’unico cancello entravano
circa 10 mila dei complessivi 40 mila spettatori che
conteneva lo
stadio vomerese. Intuibile la ressa nelle gare
importanti. Il "settore stampa" consisteva in un recinto
grande più o meno quanto un pollaio, sistemato al
centro della Tribuna e circondato da una semplice rete
metallica, a strettissimo contatto con il pubblico.
Facile immaginare le provocazioni, le “battute”, le accuse, gli
sfoghi, a volte anche gli insulti dei tifosi che
sedevano nei pressi della tribunetta, a volte per i più
banali motivi, verso i giornalisti che sedevano (come
tutti, del resto) sulla nuda pietra, uno addosso agli
altri, in non più di una ventina. Era la tribunetta che
ospitava, tra gli altri, Arturo Collana, Gino Palumbo,
Ugo Irace, Carlo Di Nanni, Agostino Panico, Ciro
Buonanno, Mimì Farina, Mario Argento, Pio Nardacchione,
Giuseppe Filosa, Antonio Scotti, Cesare Marcucci,
Beniamino Degni. I più giovani collaboratori dovevano
arrangiarsi tra la folla, passando spesso per il
botteghino. Per completezza dell’informazione,
ricordiamo che allo stadio del Vomero si arrivava, oltre
che con le poche macchine dell’epoca, solo con le
funicolari e con i filobus, attraverso via Salvator
Rosa. La motorizzazione di massa era ancora da venire.
Nella foto, la prima tribuna stampa del S.Paolo, al
centro il box per la televisione, all'epoca ce n'era una sola.
Successivamente la tribuna riservata ai giornalisti fu
traslocata più in alto, lasciando i propri posti in aggiunta
alla Tribuna Autorita'.
L’EX
MONZEGLIO PREFERI’ RESTARE IN ALBERGO
(1958-59) - Caso più unico che
raro, protagonista Eraldo Monzeglio, nell’incontro
Napoli-Sampdoria (3-2). Tornava per la prima volta da
ex, l’allenatore dei blucerchiati don Eraldo, già per
sette anni tecnico del Napoli. Era un uomo duro, ma anche
nostalgico, un sentimentale. Non se la sentiva Monzeglio di
affrontare la sua
ex squadra, troppo palpitanti i
ricordi vissuti nello stadio del Vomero alla guida degli
azzurri. D'intesa con i dirigenti blucerchiati, durante la partita restò così in
albergo, il "Parker" al Corso Vittorio Emanuele. In
panchina andò il suo vice, Gei.
CHE
UMILIAZIONE: OTTO A ZERO DALLA ROMA!
(1958-59) In questa stagione il
Napoli incassò una delle sconfitte più umilianti della
sua storia: otto a zero sul campo della Roma. Pare che i
giocatori azzurri non avessero gradito lo strombazzato
rientro di Vinicio, dopo cinque settimane di riposo
ricostituente (riportiamo il titolone di SportSud in
prima pagina: “TORNA LUI!” e molti compagni di squadra
remarono contro per dare una lezione a “lui” e al
tecnico. Brutto derby di Pasqua. Vinicio accusò
esplicitamente i compagni di scarso impegno, di essere
stato abbandonato, senza un pallone utile da giocare, in un modo
che sembrava volontario, premeditato. Il "clan di Comaschi" era più numeroso dei “fedelissimi” di Vinicio,
che attraversava un momento nerissimo. Era il periodo
delle turbolenze negli spogliatoi , mal frenate ( anzi
spesso alimentate) dall’allenatore Amadei che si sentiva
sicuro perché frequentatore mattutino delle colazioni
del Comandante in costume adamitico sul terrazzo di Via
Crispi (incurante della presenza delle suore nel palazzo
prospiciente). Ma queste visite quasi quotidiane non bastarono quell’anno ad Amadei per conservare il posto dall’arrivo
di Frossi. Ormai la squadra non gli obbediva più,
dilaniata da beghe, litigi e
persino botte. Nella foto, Lauro seminudo,
durante una delle sue lunghe colazioni mattutine che
precedevano i quotidiani esercizi di ginnastica.
PER IL
NAPOLI ANCHE UN DUELLO ALLA SPADA
(1958-59)
– Il Napoli fu anche la
causa di una sfida a duello tra due noti e validissimi
giornalisti dell’epoca, Gino Palumbo del “Mattino” e
Antonio Scotti del “Roma”, quotidiano quest’ultimo di
proprietà di Achille Lauro, presidente anche del Calcio
Napoli. Diverse ovviamente le posizioni: Palumbo era
libero di criticare (ma anche di elogiare) il Napoli
sui suoi giornali, mentre Scotti era condizionato
dall’essere dipendente di un giornale di proprietà di
Lauro ed era costretto sempre ad ergersi da paladino
della squadra e del Comandante. Fu così che nel corso di
una polemica tra i due giornalisti, avendo come tema il
Napoli, Scotti lanciò accuse agli “scribacchini di
Rotto San Carlo” (dove si stampava il “Mattino”).
Palumbo rispose il 19 maggio del ’59 con un editoriale
dal titolo “La maschera e il volto” prendendosela con
“un certo esse, che potrebbe significare servitorello e
anche sciocco”, oltre ad essere l’iniziale di Scotti. Il
sanguigno Tonino Scotti, figlio di generale, fratello di
generale, collezionista di soldatini, di amore borbonico
oltre che laurino, sfidò Palumbo a duello. Si
affrontarono, alla spada, nelle campagne di Marano,
all’alba del 27 maggio. Direttore il celebre spadaccino
De Vecchi. Bastò una sola goccia di sangue – come
stabilito - per porre fine al duello. Palumbo aveva
scelto il difensivismo. Al terzo assalto la spada tesa
cominciava a pesargli, l’abbassò e trasse in inganno
Scotti. Quando la rialzò, la lama
infilzò…involontariamente il polso destro
dell’avversario. Finì tra cappuccini e brioches al
Circolo della Stampa e le congratulazioni dei presenti a
Gino Palumbo per la vittoria, alla vigilia del suo
trasferimento al “Corriere della Sera”, dove il
compianto giornalista napoletano concluse la sua
gloriosa carriera, dopo aver guidato, in una felice
parentesi, verso record assoluti anche la “Gazzetta
dello Sport”. Nella foto, il famoso giornalista Gino
Palumbo con Vinicio, alle nozze di Louis celebrate nel
1957 nella Basilica di Piazza del Plebiscito.
QUELLA
“CIUCCIUVETTOLA” DI FROSSI …
(1959-60)
- Con scarse prospettive
di successo, arrivò Annibale Frossi sulla panchina che
era stata di Amadei. Col caratterino del Comandante,
l’ex campione olimpionico non aveva molte speranze di
restare a lungo. A parte il suo credo difensivo che non
piaceva al presidente, Frossi sorrideva poco, non volle
fare il “cavalier servente” di Lauro, non si presentava
al mattino a discutere di calcio e del Napoli, nel corso
delle sedute di ginnastica cui il Presidente Onorario
seminudo si sottoponeva sul suo terrazzo-palestra, non
si metteva a sedere sulla panchina accanto a lui, bensì
dalla parte opposta. Insomma, tutto il contrario del
predecessore Amadei. Frossi, il “dottor sottile”, uomo
di grande personalità e di studi non poteva abbassarsi a
comportamenti non consoni alla sua dignità di uomo. Poi
si aggiunsero i rapporti tesi con alcuni giocatori. E il
suo destino apparve segnato. A Napoli durò solo 360
minuti di gioco. Dopo quattro sconfitte gli fu imposto
un periodo di riposo, col ritorno – ovviamente – di
Amadei. Lauro così spiegò la scelta: “ Cu chelli lente
nere, Frossi me pareva ‘na ciucciuvettola. Amadei lo
conosco bene, ho fiducia in lui. Ogni mattina veniva a
fare colazione da me…” Tutto chiaro. Frossi continuò a
lavorare come osservatore al Nord per meritarsi
l’ingaggio. Nella foto, Annibale Frossi allenatore
del Napoli, con il presidente Cuomo. In questa immagine
Frossi non usa gli occhiali scuri...
PER VINCERE, LAURO
INGAGGIO’ UNO PSICANALISTA…
(1959-60)
- Ancora scosso per l’infelice partenza del
Napoli, il Comandante Lauro – alla ricerca di rimedi che
non fossero solo il ritorno di Amadei – ne pensò una
delle sue. Decise di ricorrere ad un’indagine analitica
della psiche di ogni giocatore. Insomma, il Napoli
doveva essere …psicanalizzato. E il 12 ottobre 1959
cominciò la sua opera il serafico psicanalista dott.
Luigi Ammendola. Iniziarono subito le consultazioni.
Ogni giorno un paio di giocatori venivano interrogati
dallo psicologo, alla ricerca dei travagliati pensieri
che ottenebravano le loro menti, per far ritrovare nuovo
vigore fisico. La trovata geniale del Comandante non
provocò effetti pratici, ma solo sorrisi in tutto il
mondo calcistico. Alla fine del trattamento, il dott. Ammendola rilevò che non era il caso di scomodare la
psicoanalisi per i problemi che assillavano il Napoli.
Gli azzurri erano sanissimi anche nello spirito, sicchè
il dottore dopo due mesi e mezzo se ne andò per i fatti
suoi, dopo aver presentato la parcella: un milione e
rotti di compenso. Non c'era necessità di una cura. Ma quante frottole
poi dissero di aver raccontato
i giocatori al “mago” Ammendola! Dopo di che il Comandante…ripiegò
sulla benedizione del campo. Sempre nel 1960, officiante
padre Emanuele Ros, spagnolo ed amico
dell’indimenticabile portiere iberico Zamora, allo
stadio San Paolo fu impartita la divina benedizione,
presenti Lauro “onorario”, il presidente Cuomo e
l’allenatore Amadei. Ma non bastò poi ad evitare la
retrocessione.
IL COMANDANTE CONSIGLIO': “
QUESTI DEVONO
MANGIARE PASTA E FAGIOLI!”
(1960-61)
- Da segnalare, sempre a proposito di Lauro,
il “quadretto” che si svolse nel ritiro di Sorrento. Una
sera arrivò Lauro, accompagnato dal dott. De Carlo, un
altro “specialista” che per volere del Comandante
praticava determinate cure di ricostituenti ai
giocatori perché acquistassero energie. Lauro,
carattere da vero capo, giunto in albergo notò che i
giocatori stavano consumando per la cena una semplice minestra in
brodo. Allora sbottò: “Ma come si fa a giocare,
mangiando questa roba?”. E rivolgendosi al tecnico
Renato Cesarini continuò: “Tu devi dare loro da mangiare
grandi piatti di maccheroni, di pasta e fagioli o altro.
E allora vedrai come corrono la domenica!...”. E
Cesarini di rimando: “Ma guardi, presidente, che per un
atleta l’alimentazione deve essere sostanziosa, ma non
ingombrante”
E Lauro rivolgendosi al dott. De Carlo: “Ho
ragione o no? Non ti sembra che con una pasta e fagioli
correrebbero meglio?”. “Certo…” rispose il dottore
imbarazzato, di fronte alla singolare tesi del suo
"datore di lavoro". Al che Lauro sottolineò a Cesarini: “
Ma vuoi forse saperne di più tu di uno che è stato per
tanti anni all’Università?...” E Cesarini, sarcastico,
chiuse così la discussione. “ Ah! Se è per questo, le
dirò che io ho passato quasi una vita intera
all’Università, perché ci abitavo proprio di fronte…” Le
parole della “scenetta” sono fedeli perchè riportate
nei suoi ricordi dal dott. Athos Zontini (per 11 anni
giocatore azzurro e per 17 medico sociale) presente alla
scabrosa scena nell'albergo di Sorrento.
IL
SALTO E LO SCHIAFFO DI COMASCHI
(1960-61) Clamoroso, quasi da
record, il salto in lungo che vide protagonista il
terzino azzurro Comaschi nel San Paolo da poco
inaugurato. Per rispondere ad un gruppo di pseudo-tifosi
che frequentava gli allenamenti solo per beccarlo, il
focoso terzino napoletano, perduta la pazienza, scavalcò
con un salto ritenuto impossibile il fossato che
divideva la curva dal terreno di gioco, dando una
solenne lezione ai suoi contestatori, con una furiosa
scazzottatura. Il sanguigno difensore azzurro fu anche
protagonista di un altro duro intervento in …borghese.
Fu quando per una questione di gelosia prese a schiaffi
in Via Chiaia, a Napoli, il figlio minore di Achille
Lauro, Ercolino, in gentile compagnia. Nella foto,
Comaschi abbracciato da un tifoso azzurro a fine gara.
Al suo fianco Vinicio.
VINICIO LIQUIDATO PER UNA
QUESTIONE DI GLOBULI
(1960-61)
- Fu, questa, anche la stagione della discussa
e impopolare liquidazione di Vinicio, avviato a Napoli
sulla via del declino, accusato di scarso rendimento e
di egoismo nel gioco. Da sottolineare la crisi di pianto
di Louis mentre chiedeva
al Comandante di lasciarlo
fuori squadra per le sue condizioni critiche: “Così non posso continuare…”. Si stava
ripetendo il caso Jeppson, di qualche anno prima: tutti
contro un uomo (tecnico e diversi compagni) , e un uomo
solo contro tutti. Mentre la tifoseria azzurra scendeva
in piazza per protestare dietro striscioni del tipo
“Vendetevi l’anima e non Vinicio!”, il comandante Lauro,
con l’assenso di Amadei, cedette al Bologna Louis,
vittima di una flessione fisica. Eppure Nicolò Carosio
in una radiocronaca aveva definito Vinicio “prodigioso
calciatore”. Il presidente giustificò la cessione con
una strana storia di squilibrio tra globuli rossi e
bianchi, problema che – chissà perché - sparì appena
Vinicio lasciò Napoli, visto l’eccezionale rendimento
successivo dell’attaccante, soprattutto a Vicenza, dove
diventò capocannoniere del campionato. Amadei
addirittura gli aveva lanciato addosso l’ipotesi che
fosse sifilitico! Che bell’ambiente in quegli anni. Con
la
partenza di Vinicio, il Napoli realizzò una delle
campagne acquisti più fallimentari. Arrivarono in cambio
dal Bologna Pivatelli, Bodi, Mihalic e 122 milioni, poi
furono acquistati anche la mezzala della Fiorentina e
della Nazionale Gratton per 90 milioni (con problemi
fisici, un’altra grande delusione), quindi Tacchi e
Girardo, ma il Napoli finì malinconicamente in B, col
pianto ed il malore finale di Sallustro, allora
direttore del San Paolo, che per salvare il salvabile
aveva accettato di sostituire sulla panchina Cesarini ed
Amadei (il frascatano farà meglio qualche anno dopo
allenando non calciatori, ma calciatrici). Nella
foto, a destra, Pivatelli, nuova punta del Napoli al
posto di Vinicio: una grande delusione. In alto, Luis
segnava anche così, a volo d'angelo (contro la Juve al
Vomero).
INGHIPPI PER PESAOLA E PER LA PROMOZIONE
(1961-62)
- Bruno Pesaola cominciò
in maniera singolare la sua carriera di allenatore in
azzurro, a 37 anni, dopo aver militato come calciatore
nel Napoli dal 1952, per otto stagioni. Nel 1961-62 il
Napoli in B cominciò la stagione in maniera disastrosa,
sotto la guida tecnica di Fioravante Baldi: quart’ultimo
posto alla seconda di ritorno. Nel timore del peggio, si
corse ai ripari. Licenziato Baldi, di fronte al no di
Amadei, Monzeglio e Frossi, si pensò al “petisso” che a
quel tempo faceva esperienza con la Scafatese in un
campionato dilettanti. I dirigenti di Scafati – tifosi
anche del Napoli – non si opposero al trasferimento
anomalo e fuori stagione. Pesaola in poche ore firmò ed
si recò al San Paolo, ma non avendo il patentino di
allenatore non poteva sedere in panchina. Fu allora
trovata una soluzione: il “petisso” venne nominato
consigliere del Napoli e come tale andava in campo in
qualità di
“accompagnatore”. Gli effetti benefici furono immediati.
La squadra risalì piano, piano, con il tatto e l’abilità
di Pesaola ed anche con un pizzico di fortuna, come
accadde all’Olimpico nel derby con la Lazio: l’arbitro
Rigato non vide entrare nella porta azzurra una punizione-bomba di Seghedoni che aveva sfondato la rete. Finì 0-0. Il
rilancio dei partenopei continuò fino all’ultima giornata,
quando il Napoli si giocò il ritorno in Serie A a
Verona, contro una diretta concorrente per la
promozione. Gli azzurri vinsero per 1-0 con gol di Corelli e conquistarono la A. Ma per festeggiare, i
giocatori ed i tifosi dovettero attendere l’esito di un
processo che il Napoli fu costretto a subire per
presunto illecito. L’accusa incolpava il dirigente Antonio Corcione ed il napoletano di Verona, Antonio Peluso, di
aver contattato un amico dei giocatori veronesi,
Pasquale Principe, allo scopo di addomesticare
l’incontro. Cifra: due milioni e mezzo. Altra accusa: i
giocatori del Verona, Postiglione, Bertucco e Maioli, ex
azzurri, erano stati minacciati di morte per telefono se
non avessero favorito il Napoli. Tra gli indagati anche
Pesaola, accusato di essere stato testimone di strani
contatti prima della partita. Poiché dell’illecito si
sospettava in anticipo, prima ancora della partita, l’Ufficio Indagini raccolse
prove di incontri, di telefonate, di accordi, furono
messi insieme testimonianze, nastri magnetici che alla
fine invece di inchiodare il Napoli, d’incanto,
risultarono “insufficienti” o “irriconoscibili” e
“illeggibili”. Opera abilissima di Gigino Scuotto che
gestì la raccolta delle controprove con grande
efficacia, intelligenza ed astuzia. Sicché alla fine la
sentenza decise: a Corcione, colpevole, la squalifica a
vita per il troppo…amore verso il Napoli (impiegherà
molto per farsela ridurre) , tre anni a Peluso. Era
un'iniziativa personale. Non
condannabile, invece, nessuno del Napoli. Così gli
azzurri tornarono in A per merito di Scuotto non meno
che di Pesaola. Ma restarono molti sospetti. Anche il
dubbio che il Napoli, uscito miracolosamente indenne e
salvato dalla retrocessione grazie ad un processo molto
discusso, fu poi …aiutato dal “palazzo” a ripiombare in
B nel campionato successivo. La ciliegina sulla cassata
azzurra fu costituita dalla conquista insperata anche
della Coppa Italia, contro tutti i pronostici. Nella
foto, Bruno Pesaola mentre dà istruzioni agli azzurri.
CANE’
FU
ACQUISTATO DA LAURO IN FOTOGRAFIA
(1962-63) - E’ accaduto anche
questo: Faustinho Canè, l’attaccante brasiliano
diventato napoletano d’adozione dopo tanti anni di
successi in maglia azzurra, fu acquistato in fotografia
dal Comandante, senza chiedere consiglio a nessuno. Andò
così. Lauro chiamò Gigino Scuotto e gli disse che un
procuratore di giocatori brasiliani, tale Josè de Gama,
gli aveva scritto proponendogli l’acquisto di alcuni
calciatori carioca, inviandogli anche delle foto, come
fossero delle pin-up girl. Sarebbero venuti a Napoli a
provare senza alcun impegno, con la sola spesa della
metà del prezzo del viaggio. Lauro mostrò a Scuotto le
foto dei giocatori e indicandogli quella di Canè, gli
disse : “Vedi, Gigì, io voglio prendere chisto, perché è
‘o cchiù brutto. Chist’è niro, gli avversari si
spaventeranno e lui farà i gol. Pigliàmmelo”. Fu così
che Canè (che era sì di colore nero, ma non era per
niente brutto nei suoi lineamenti) venne a provare col
Napoli. Convinse l’allenatore Pesaola e fu acquistato
per 40 mila dollari. Ma ebbe un avvio difficile: nelle
prime sette gare non segnò un solo gol e subì molte
critiche. Poi convinse tutti. Era il secondo coloured
del Napoli, dopo il boliviano La Paz. Alla fine della
sua carriera napoletana, dopo aver giocato dieci
stagioni in azzurro, totalizzò 217 presenze e 56 gol.
Pochi sanno che il nome Canè è solo il nomignolo
datogli in Brasile quando era piccolo e che vuol dire
proprio “piccolo”. Il suo vero nome è Jarbas Faustinho.
Nella foto, Canè e Sivori.
UNO
STRANO DOPING DOPO LA VITTORIA DI MILANO
(1962-63)
- Non poteva mancare
nella tormentata vita del Napoli anche un caso di
doping. Accadde il 27 gennaio 1963, a San Siro, vittoria
degli azzurri per 1-0 con gol di Corelli. Prima della
partita, i giocatori napoletani avevano ricevuto la loro
porzione di simpamina (o qualcosa del genere,
uno stimolante) quando il massaggiatore Beato, trafelato,
irruppe negli spogliatoi, rivelando di aver visto gli
addetti ai controlli antidoping. Ma ormai non c’era più
niente da fare per rimediare. Gli azzurri scesero in
campo, vinsero, e preoccupati si recarono per le
operazioni antidoping all’Hotel Gallia. Ma si cercò di
correre ai ripari. Ci furono scambi di provetta, travasi
vari. Alla fine si trovò incriminato l’innocente Pontel
(che era il portiere di riserva di
Cuman…) insieme con
Molino, Rivellino, Tomeazzi, Fraschini, Rosa e Tacchi.
Ma solo i primi quattro furono condannati ad un mese di
squalifica, gli altri tre vennero assolti. Anche
stavolta c’era stata la mano magica dell’astuto Gigino Scuotto. Tre dei contenitori,
infatti, diedero agli esami
successivi di laboratorio – quelli decisivi – risultati
incredibili. Risultò tutt’altro che urina umana. La verità è che
durante il trasporto delle provette in taxi verso il
laboratorio, c’era stata una sosta per prendere un bel caffè e la borsa con i liquidi era rimasta in auto. Fu
il sole di quel giorno? Fu il calorifero sul quale venne
poi sistemata “incautamente” la borsa? Ci fu qualche
sostituzione? Molti i sospetti, una sola certezza: una
parte dei giocatori azzurri se la cavò, dopo gli esami
di quel liquido così strano. Forse la sentenza complessiva fu
mite anche per non rovinare del tutto il Napoli. Grazie
ancora a Gigino Scuotto, grande "manovratore"! Tutto ciò avvenne nella
disgraziata stagione in cui, il 28 aprile 1963, a Napoli
si registrò la colossale invasione di campo nella gara
con il Modena, con gravissimi danni alle strutture del
San Paolo e tanti feriti (e di cui parliamo a parte
nelle “pagine nere” del tifo). Nello stesso giorno degli
incidenti di Fuorigrotta, a Salerno nell’incontro col il
Potenza i tifosi granata ritennero di essere stati
privati di una vittoria importante per la promozione in
B, con conseguenti incidenti e soprattutto con un morto
e 35 feriti. Nella foto, Gigino Scuotto (artefice della mite
punizione nel caso doping) in sede insieme con l'allenatore del
1963-1964, Roberto Lerici.
JULIANO
PRESO PER 11 MAGLIETTE E DUE PALLONI ... MAI VISTI(1962-63)
-
Antonio Juliano debuttò
ventenne in Serie A contro l’Inter al San Paolo il 17
febbraio del 1963. Unica presenza. Tanto nefasto il
risultato (cinque a uno per i nerazzurri), tanto
luminosa la carriera. Fu schierato da Pesaola all’ala
sinistra e naufragò con tutta la squadra, ormai avviata
verso la B. Di carattere volitivo, dotato di molta
dignità, con una grande grinta, diventò ben presto non
solo abile regista, ma anche un uomo guida della
squadra: nelle trattative con la società per il
reingaggio era l’ultimo a firmare, ma il primo a
presentarsi e a partire per il ritiro. Nel suo periodo
di fulgore, conduceva lui le trattative con la
presidenza per i reingaggi di tutta la squadra. I
maligni sostengono che sapeva vendere bene la sua
“intermediazione” . Cresciuto tra i boys del Cirio
(Quarta Serie) passò alla Fiamma Sangiovannese del
patron Giovanni Russo (che custodiva gelosamente il
primo cartellino da calciatore di Totonno). e da qui
finì tra i ragazzi del Napoli nel 1960. Il racconto di
Giovanni Russo (che ha compiuto cent'anni il 5 agosto
del 2007): “Ciro, il padre di Juliano, era stato
un bravo ciclista. Mi disse: Tonino continuerà a giocare
a pallone solo se lo prendete voi. Gigino Scuotto,
dirigente del Napoli e mio amico, mandò Giovanni
Lambiase, il capo del settore giovanile sul campo del
"Macello" dove giocavamo e Tonino fu subito preso dal
Napoli (anche se Lambiase quel giorno era andato
soprattutto per vedere un certo Caputo n.d.a.). Mi
promisero in cambio due palloni e undici maglie: mai
visti”. Quando nel 1965 Juliano giocò al fianco di
Sivori e Altafini, mostrando tutto il suo valore, era
quotato sul mercato 200 milioni, ma tutto quello
che guadagnava lo passava a mammà e continuava a dare
una mano nella salumeria del padre a San Giovanni a
Teduccio. I duento milioni lievitarono a 800 nel 1969,
quando Carraro, allora presidente del Milan, offrì a
Ferlaino quella cifra record, ma Juliano - primo caso di
rifiuto al trasferimento, benchè non vi fosse ancora la
firma contestuale - si oppose e poco più tardi
confidò: " E che , andavo a fare il servitore a quello
là?" Ovviamente "quello là" era Rivera. Juliano giocò
col Napoli 502 gare, di cui 394 in campionato. Un
particolare che pochi conoscono: Juliano, pur essendo
nato il 26 dicembre del 1942, è stato registrato
all'anagrafe il 1 gennaio del 1943, come spesso accadeva
in passato (per ritardare di un anno la chiamata al
servizio militare di leva). In conseguenza di ciò tutti
gli Almanacchi riportano come data di nascita una data
errata. Nella foto, Juliano giovanissimo nel
campionato di B del 1963-64.
LO BELLO (3 RIGORI) FECE
INFURIARE IL MINISTRO
(1966-67)
– Scoppiò nel 1967 la rabbia della Spal contro Lo Bello
ed il Napoli. Era il 5 febbraio, una giornata
fredda, ma a Ferrara rimasero gelati soprattutto dai tre
rigori concessi contro la Spal dall’arbitro siracusano,
tutti realizzati da Altafini che permisero al Napoli di
vincere per 4-1 (più un gol
di Juliano ed un’autorete di
Nardin). Fu un confronto diretto, e a distanza, anche tra
Lo Bello ed il pubblico estense che gridava “Duce,
Duce!”, "Rigore, rigore!” e l’imperturbabile Lo Bello lo...
accontentava, fischiando penalty, uno dopo l’altro.
Presidente di quella Spal era Mazza, importante
dirigente della Lega che sedeva tra l'altro in panchina.
Dopo l'ennesimo rigore dette in escandescenze e don
Concetto fu costretto a cacciarlo. Fecero, però, subito
una norma che permetteva ai dirigenti di Lega di stare
comunque a bordo campo. Era un bel Napoli, quello di Sivori, Altafini,
Juliano, Bianchi, Canè che a Ferrara meritò ampiamente il
successo. Ma Lo Bello fu contestato e minacciato anche
dopo il triplice fischio finale. Rimase negli spogliatoi
oltre tre ore, dopo la fine della gara. La contestazione
continuò successivamente in maniera insolita. Il
ministro socialdemocratico alle Finanze, Luigi Preti
(già notissimo esponente del Fascio ferrarese durante il
Regime), anche lui “scosso” dai tre rigori concessi da
Lo Bello, smise i panni di tifoso, indossò quelli di
politico ed inviò i propri uomini per un’ispezione fiscale
e patrimoniale a Siracusa nella speranza di cercare qualche irregolarità sul conto dell’arbitro
siciliano. Fece cilecca. Tutto in regola. Nel mondo del
tifo può accadere anche questo. Racconta Rosario Lo
Bello: " Quando anche mio padre fu eletto in Parlamento,
trovò la maniera per prendersi la rivincita con Preti.
Gli piaceva andare a cercare quell'uomo politico e
rinfacciargli la scorrettezza: potete essere certi che
non lo faceva con parole gentili". A proposito di
Rosario Lo Bello, anche il figlio di Concetto concesse
tre rigori al Napoli, ma in casa il 10 febbraio 1991,
contro il Parma. Il Napoli vinse 4-2: due rigori furono
trasformati da Maradona ed il terzo da Careca. Nella foto
Concetto Lo Bello e l'ex ministro Luigi Preti.
QUELLO
SPENDACCIONE DI GIOACCHINO…
(1967-68)
Tramontata la stella
di Roberto Fiore, in aperto dissenso con Achille Lauro,
si affacciò alla ribalta il primogenito del Comandante,
Gioacchino “il buono” per il suo carattere gioviale,
cameratesco, avvolto nel fumo del suo eterno sigaro,
personaggio munifico, ma anche sciupone. Orologi di
marca in regalo ai giocatori, a qualcuno anche la Porsche,
gioielli alle signore, denari distribuiti ad ampie mani.
Quando esordì al “Gallia” di Milano per il mercato
calcistico, lievitarono i prezzi (anche quelli delle
"gentildonne"). Ma gli acquisti furono
eccellenti: arrivarono Pogliana, Claudio Sala, Barison e
soprattutto dal Mantova Dino Zoff. Per poco fallì
l’acquisto di Gigi Riva. Oltre il prevedibile però andò
la campagna per gli ingaggi. Da raccontare il caso
Barison. L’attaccante era giunto a Napoli fortemente
raccomandato da Altafini che voleva continuare a tenere
affettuosamente unite le due famiglie. “Zio Josè”
consigliò al suo amico di chiedere a Gioacchino Lauro
non meno di 15 milioni e mezzo di ingaggio. “Sedici o
diciassette – disse – andranno benissimo”. Barison fece
tesoro della raccomandazione e tenne bene a mente le
cifre da chiedere, ma si sentì proporre dal magnanimo
neopresidente: “Guè, nun fa storie cu’ mme. O ti pigli
ventidue milioni, o nun me scuccià. Non ne facciamo
niente!”. Proverbiali anche i suoi affari privati, con
ardite e infelici speculazioni, come l’acquisto di
ventimila galline ovaiole, di difficile collocazione.
Addirittura l’arrivo davanti alla villa di Via Crispi di
un camion con un armadio di lusso zeppo di sigari avana,
di gran marca, ben sistemati nei vari cassetti. Questo
era il personaggio, gioviale, ma anche irresponsabile,
forte delle spalle di papà. Raccontava il compianto
collega Enrico Marcucci, da ragazzo suo compagno di
giochi e di avventure, che andavano insieme a cinema con
i soldi che erano destinati all’affrancatura delle
“raccomandate” di famiglia (per fortuna non quelle della
Flotta…). Le buste, prive dei francobolli, venivano
imbucate nei tombini. Negli anni successivi le esigenze
ovviamente erano destinate ad aumentare. Se Gioacchino
aveva bisogno di soldi, acquistava (appoggiandosi al
conto in Banca dell’ignara famiglia) qualche auto e la
rivendeva dopo poco, oppure presentava favolosi conti
per riparazioni meccaniche per ampliare il suo assegno
mensile di 400 mila lire. Un personaggio incontrollabile
fino in fondo. Così Lauro, dopo avergli regalato la
poltrona di presidente, gli tolse il giocattolo, per evitare guai
peggiori, visto che gli ufficiali giudiziari erano alla
porta della Società. E subito dopo il Comandante fu
costretto anche ad interdirlo per bloccare le pressioni
dei creditori. Lo “scoperto” a quel tempo era di sette
miliardi. Poco dopo l’eterno ragazzo di Via Crispi finì
nella tomba, ad appena 50 anni, per un male
incurabile. Nella foto Gioacchino Lauro allo stadio
San Paolo.
UN EX COLONNELLO
SQUILIBRATO SPARO’ AGLI AZZURRI
(1967-68) -
Durante una tournèe di fine stagione in
Brasile, il Napoli mentre soggiornava a Caritibu, la
capitale dello Stato del Paranà, patria di Dirceu,
scampò in maniera fortunosa ad un attentato. Accadde che
Barison litigò giocando a carte con un tizio, ex
colonnello, ex reduce dalla battaglia di Montecassino
dove, nella seconda Guerra Mondiale, aveva patito una
ferita al cervello. L’ex colonnello, dopo il litigio
con Barison meditò una
spedizione punitiva che realizzò dopo poche ore. Irruppe
nell’hotel “Guaira Palace”, dove il Napoli era in
ritiro, e cominciò a sparare all’impazzata con una
pistola. Fu un vero
miracolo se non colpì nessuno prima di fuggire.
Il segretario del Napoli, Enrico Zuppardi, capo
comitiva, subordinò– come ricorda Carlo Iuliano
responsabile dell’Ufficio Stampa – l’effettuazione
dell’amichevole, fissata per il giorno dopo, alla
cattura di quello squilibrato. Cosa che avvenne in tempi
molto brevi. Nella foto, Carlo Juliano, a lungo
capo dell'Ufficio Stampa.
TRA I PUGNI L’ADDIO DI
SIVORI
(1968-69)
- Fu la stagione dell’addio di Sivori. Il 1
dicembre del ’68 al San Paolo arrivò la Juve di
Heriberto Herrera, nemico giurato di Sivori, che aveva
lasciato la Juve proprio per i dissidi col il mister
paraguaiano. L’allenatore aveva disposto per il cabezon
una marcatura stretta, al di là del lecito. Gli azzurri,
nonostante le durezze dei bianconeri, pareggiarono per
poi passare in vantaggio e vincere con una doppietta di
Montefusco (2-1). Sivori, che vedeva realizzarsi la sua
grande vendetta, cominciò a provocare il suo angelo
custode Favalli: tunnel, piroette, dribbling, conditi da
“paroline”. A pochi minuti dalla fine del primo tempo,
Sivori effettuò un tunnel accompagnato da un “olè”, poi,
raggiunto il pallone, si fermò e guardò indietro la sua
vittima che – vistosi irriso – piombò addosso a Sivori.
Caddero entrambi a terra, si scalciarono, ma Favalli
restò steso come se fosse stato investito da un camion.
Panzanato che era nei paraggi, sussurrò qualcosa a
Favalli, poi gli appoggiò una scarpetta sulla testa,
provocando la reazione di Salvadore e Leoncini. Questi
aggredirono alle spalle in difensore azzurro con una
gragnola di pugni. Trascorsero tre minuti per sedare il
pugilato in campo, con la collaborazione anche della
Polizia. Poi Pieroni espulse Sivori, Panzanato,
Salvadore ed il paciere Chiappella, ma mentre il
gruppetto lasciava il campo, Panzanato ebbe un nuovo
scatto d’ira nei confronti di Salvadore, che rientrò
negli spogliatoi in barella. A Panzanato vennero
applicati tre punti di sutura al labbro, mentre per
Salvadore, ricoverato poi alle “Molinette” di Torino, furono
necessari vari punti di sutura per spacco del
sopracciglio e della bocca. Pesantissime le punizioni: 9
giornate di squalifica a Panzanato, 6 a Sivori, 4 a
Salvadore, 2 a Chiappella. Pochi giorni dopo, il 7
dicembre, moriva prematuramente, a 48 anni, un altro
presidente azzurro, Corcione, molto legato a Sivori. In
contemporanea, a causa della lunga squalifica, Omar (33
anni) annunciava il suo ritiro dal calcio. Il 22
dicembre si recò allo stadio, in occasione di
Napoli-Atalanta, e salutò i compagni ed il pubblico che
gli tributò un applauso lungo 11 minuti. Si concludeva
così l’avventura cominciata nel 1975, 63 presenze, 12
gol. Omar era stato acquistato da Fiore dopo il gran
ritorno in Serie A ed affiancato ad un altro grande
campione, Josè Altafini. Proprio quell’anno la Juve
doveva disfarsi di Sivori, in rotta con l’allenatore
Heriberto che pretendeva che Omar si allenasse come gli
altri. Per l’acquisto del cabezon scese in campo Achille
Lauro. Il giocatore era stato valutato 300 milioni, il
Comandante intervenne direttamente su Agnelli,
strappando un prezzo di favore, 90 milioni, ed in cambiò
acquistò dalla Fiat i motori per le sue due navi in
costruzione, l’Angelina Lauro e l’Achille Lauro. Quando
il campione argentino arrivò alla stazione di Mergellina,
fu miracolosamente salvato da una folla di 10 mila
tifosi che erano straripati fin sui binari. Dopo il suo
ritiro dal calcio, Sivori restò molto legato a Napoli.
Le sue visite alla città furono frequenti. Nella
foto a destra, Panzanato sferra un "sinistro" a Salvadore, mentre
i due stanno rientrando negli spogliatoi. Nell'altra
foto, Sivori se ne va.
IL PANORAMA NEGLI OCCHI E LA
NEBBIA NELLA TESTA (
1968-69)
- Napoli, una città che –
nonostante le sue cento emergenze – ha sempre
conquistato, in passato ed oggi, giocatori e i dirigenti
che hanno militato in azzurro. Molti sono rimasti a
vivere stabilmente in questa città piena di problemi e
contraddizioni, molti altri vi tornano volentieri e
spesso anche per trovare i figli che qui si sono
sistemati.
Qualche nome: Innocenti, Sentimenti II, Suprina,
Vinicio, Pesaola, Canè, Jeppson, Vinazzani, Chiappella,
Savoldi, Moggi tra i maggiori. Eppure qualcuno non ha
apprezzato, non diciamo lo stile di vita dei napoletani
– il che è sempre soggettivo – ma addirittura l’indubbia
bellezza naturale del posto. Da segnalare la frase che
negli Anni Sessanta, durante la sua permanenza a Napoli il difensore Aristide Guarneri, già
punto di forza della pluri-scudettata Inter di Herrera e
poi del Bologna, pronunciava affacciandosi sul Golfo
dal balcone esclusivo del suo prestigioso palazzo in Via
Petrarca, quello abitato per anni dai neo acquisti
azzurri, su indicazione del Calcio Napoli. “Ah, quella
bella nebbia di Cremona! …”. Proprio così esclamava
Guarneri,
incredibilmente colpito da irrefrenabile nostalgia, e
non certo per ironia, per niente sfiorato dalla
indiscutibile bellezza di quel panorama sul Golfo
riservato a pochi e facoltosi privilegiati. Lo riferiamo senza
commenti. Ma ricordiamo in proposito l’esortazione
(inserita poi tra i detti latini) che Cristo fece ai
suoi discepoli.: "Nolite dare sanctum canibus, neque
mittatis margaritas vestras ante porcos..” ovvero
tradotto in italiano ad uso di certi denigratori: "Non
date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre
perle ai porci, perché non le calpestino.”. Non a caso,
il rigido Guarneri restò a Napoli una sola stagione. Poi
risalì nelle brume della sua amata Padania.
FERLAINO PRESO A SCHIAFFI
PER COLPA DI LAURO
(1970-71)
- Singolare episodio al “mercato del calcio”
nell’albergo milanese “Gallia”.
Ferlaino aveva già chiuso col il Verona per Clerici (che doveva
poi venire a Napoli nel 1973, prelevato dalla
Fiorentina), quando gli arrivò una telefonata del
Comandante: “ Senti Ferlaino, ho saputo che vuoi
acquistare Clerici. Se lo compri lo fai a titolo
personale. Altrimenti è guerra!”. Ferlaino era tra due
fuochi: da una parte l’ira del Comandante, presidente
onorario ma azionista e attento ai bilanci, e
dall’altra il presidente del Verona, Garonzi ed il
procuratore Crociani con i quali erano stati definiti
tutti i dettagli del trasferimento di Clerici.
Ferlaino
invitò allora Garonzi a fargli vedere un attimo la bozza
del contratto firmato e una volta avutolo tra le mani
disse: “Non se ne fa niente, scusate e arrivederci”,
quindi strappò il contratto a pezzi. Più di Garonzi si
risentì Crociani che in pochi secondi vedeva svanire
l’affare ed il lauto compenso di intermediazione.
Crociani balzò su Ferlaino e gli affibbio un sonoro
ceffone. Meglio uno schiaffo che la rottura col
Comandante, dovette pensare Ferlaino che seguiva passo passo i bilanci del
Napoli, nonostante fosse... impegnato con la nuova
famiglia (dopo la scomparsa di
Donna Angelina). Da poco aveva sposato la seconda moglie. la bellissima
Eliana Merolla, in arte Kim Capri. Il matrimonio, un po'
contestato in famiglia, con una ragazza di 50 anni
più giovane, fu celebrato a sorpresa nella chiesetta
"San Benedetto" all'Arco Mirella alle 23,30
nel '70. Nella foto, Lauro sposo.
LE CORNA DI CHINAGLIA PER
LO SCUDETTO PERSO A NAPOLI
(1972-73)
- Un campionato deludente degli azzurri e
salvezza ottenuta con difficoltà. Basti pensare che il
Napoli riuscì a segnare il suo primo e ultimo gol in
trasferta solo alla penultima giornata, con Ferradini, a
Marassi. Da segnalare in quella stagione anche la vendetta
tremenda che gli azzurri riservarono alla Lazio
privandola dello scudetto negli ultimi minuti del
campionato. Accadde che nel derby d’andata, il 21
gennaio del 1973, i
laziali non solo si impegnarono per
umiliare il Napoli (3-0), ma lo dileggiarono
apertamente. Dopo il suo gol all’87’ Chinaglia si
avvicinò a Vavassori che aveva avuto difficoltà a marcarlo e
l’apostrofò:”Missione compiuta. Con questa mia rete ho
messo il timbro sulla retrocessione del Napoli” (eppure
mancavano ancora 15 partite alla fine). Nel
sottopassaggio ci fu un alterco tra i due, con scambi di
calcioni ed insulti. Il difensore napoletano, a suo
volta, minacciò: “Ci rivedremo a Napoli, nella partita
di ritorno!”.
E così fu. Al San Paolo, all’ultima giornata, il Napoli
si presentò già salvo, mentre la Lazio era terza in
classifica (43 punti) alla pari con la Juve e ad un solo
punto dal Milan capolista (44 punti). Sentiva profumo di
scudetto. Al 62’ il Milan
perdeva a Verona 3-1, la Juve pareggiava a Roma 1-1, la
Lazio era pari col Napoli 0-0. Si profilava uno
spareggio a tre per lo scudetto. Ma se la Lazio avesse
vinto avrebbe potuto addirittura conquistare il titolo. Doveva,
però, fare i conti con un Napoli vendicativo. Gli
azzurri di fronte alle bellicose intenzioni finali della
Lazio risposero con ardore – Vavassori in testa – in
cerca del successo. Lo ottennero a tre minuti dalla fine
con Damiani che realizzò così la minacciata vendetta
azzurra. La
Lazio perse lo scudetto che andò inaspettatamente alla Juventus, vittoriosa sulla Roma all’Olimpico, mentre il
Milan smarrì il primato perdendo a Verona 5-2. A fine
gara, al San Paolo, Chinaglia, dimenticando i
precedenti, le offese e le minacce rivolte agli azzurri
a Roma nella
vittoriosa gara d’andata, sollevò in alto, all’indirizzo della
folla che festeggiava, il suo braccio destro, facendo il
segno delle corna. Per fortuna dagli spalti non ci fu la
reazione temuta. Restò l’atto antisportivo di un
giocatore che pur era stato lanciato a Napoli dalla
seconda squadra cittadina. Il noto giornalista Gianni Brera sostenne
subito sul suo
giornale che gli azzurri furono foraggiati da un’altra
squadra per impegnarsi allo spasimo contro la Lazio.
Versione poi confermata negli anni successivi. Tra il
primo e il secondo tempo alcuni giocatori laziali, in
effetti, andarono a parlare con Juliano per
"ammorbidire" con un premio gli azzurri. Ma Juliano -
come ha rivelato anche Vincenzo D'Amico in Tv - disse:
"Ci dispiace, ma la Juve è arrivata prima di voi, dovete
accontentarvi del secondo posto". Nella foto, Chinaglia,
grande protagonista della Lazio di Maestrelli.
IL
SEGRETO DI MISTER VINICIO
(1973-74)
- Vinicio allenatore nel
1973, brasiliano col carattere di un tedesco, fu il tecnico che
forse più di ogni altro nella storia del Napoli ha avuto
un’intesa “fideista” con i suoi giocatori, tutti ben
allineati e disponibili a realizzare in campo il suo
credo calcistico, costituito da ritmo e movimento, al
limite dello sfinimento, un calcio totale e
spettacolare, come quello olandese di allora, per
intenderci. Due stagioni indimenticabili (un terzo e un
secondo posto), in cui gli azzurri resero oltre i loro
doveri e il loro ingaggio, in omaggio al loro capo
carismatico. Aveva promesso subito grandi sacrifici,
chiedendo il rispetto di tutti i suoi ordini. Il primo
fu imposto a Montecatini, durante il ritiro
precampionato. Affrontò un gruppetto di giocatori che
aveva trasgredito all’ordine di non bere acqua minerale
ghiacciata e pose l’alternativa:” O fate sempre quello
che dico io o me ne vado”. La squadra capì con chi aveva
a che fare, scelse di seguirlo e lo fece fino in fondo
in qualsiasi campo, ottenendo risultati e gloria. Anche
se dopo due stagioni “tiratissime” qualcuno scoppiò per
la fatica.
CON CLERICI TENTATO
ILLECITO A VERONA
(1973-74) -
Alla
vigilia di Verona-Napoli, 21 aprile 1974, a cinque
giornate dalla fine, fallì un
tentativo di corruzione ai danni del Napoli. Il portiere
dell’albergo dove alloggiava la squadra azzurra chiamò
l'attaccante brasiliano del Napoli, Clerici, annunciandogli che
era desiderato al telefono. Dall’altro capo c’era il
presidente del Verona, Garonzi, il quale riferì a
Clerici, ex veronese, che aveva interessato Gianni
Agnelli affinché consentisse all’attaccante del Napoli
l’apertura di una grossa concessionaria Fiat in Brasile.
“Se smetti col calcio, posso aiutarti ad aprire una
bella concessionaria di auto in Brasile, ti farò
sapere. E comunque domani, mi raccomando, fai il bravo”.
Forse furono queste ultime tre parole che ebbero un peso
decisivo nella vicenda. Il giornalista Romolo Acampora,
presente alla telefonata, che per primo aveva
pubblicato la notizia su "Il Mattino" e Mino Mulinaccci
sulla "Gazzetta dello Sport" continuarono a seguire la
vicenda che aveva ovviamente provocato la denuncia
all'Ufficio Inchieste da parte del Foggia, in zona retrocessione.
Quando Clerici fu interrogato dagli inquirenti
ammise la telefonata, affermando, però, di non aveva
dato peso al contenuto e di aver giocato senza
condizionamenti. Garonzi, invece, negò di aver
telefonato e, quando, a seguito dei riscontri e delle
testimonianze, fu costretto ad ammetterlo, il
primo diniego categorico gli costò la colpevolezza perl
tentativo di illecito. Il Verona aveva vinto egualmente la partita per
1-0, ma fu retrocesso all’ultimo posto per tentato
illecito e finì in B. A Garonzi vennero inflitti
tre anni di squalifica.
Nella foto, Garonzi.
ALTAFINI CORE ‘NGRATO (E
SFUMO’ LO SCUDETTO)
(1974-75)
- Un amarissimo ricordo: la partita perduta in
extremis dal Napoli a Torino contro la Juve per un gol
di Altafini, da poco entrato dalla panchina. Il Napoli
quell’anno sentiva odore di scudetto e in effetti lo
sfiorò perché, a seguito di questa sconfitta, finì
secondo a due punti dalla Juve campione d’Italia. Se
fosse andata diversamente sarebbe stato il primo
scudetto azzurro. Il 6 aprile 1975 il Napoli di Vinicio
salì a Torino con grandi speranze. Nel primo tempo segnò
Causio, ma nella ripresa gli azzurri dopo un quarto
d’ora avevano già raggiunto il pari con Juliano. Poi
cominciarono i pericoli per Zoff che parò in maniera
prodigiosa i tiri degli ex compagni squadra. Ma all’85’
il tecnico bianconero, Parola (un altro ex azzurro)
chiese aiuto ad Altafini che sedeva in panchina. Josè
non toccò palla. A tempo scaduto, però, raccolse un
batti e ribatti in area azzurra ed infilò nella mischia
il povero Carmignani. Un 2-1 che distrusse i sogni di
gloria del Napoli e
valse ad Altafini l’appellativo di
“core ‘ngrato”. Per dimostrare la forza di quel Napoli
di Bruscolotti, Juliano, Clerici, Esposito, basta
ricordare che dopo quella indimenticata sconfitta gli azzurri
piegarono la Ternana per 7-1, l’Inter per 3-2,
pareggiarono a Torino 1-1 con i granata, vinsero col
Bologna 1-0 e conclusero il campionato con un 2-0 a
Varese. Un finale trionfale che non servì a porre
rimedio a quella infausta sconfitta di Torino targata Altafini.
ESPLODE
“OJ VITA, OJ VITA MIA”
(1975-76) E’ legato a questo campionato il trionfo di “Oj vita, oj vita mia…” come
grido di battaglia dei tifosi azzurri. Accadde nel
derby Lazio-Napoli del 7 dicembre 1975 (0-1). Era il
Napoli di Vinicio che la stagione precedente aveva sfiorato lo
scudetto e che lottava ancora per il primato. Al gol
decisivo di Boccolini che portava il Napoli in vetta (mentre la Juve stava perdendo nel derby con il Torino),
vi fu quasi una “magia”, una ispirazione spontanea dei 30 mila
tifosi azzurri che affollavano l’Olimpico. Esaltati dal
gol di Boccolini quasi tutti i tifosi cominciarono a cantare – quasi fosse
stato concordato da una miracolosa regia occulta – “Oj vita, oj
vita mia…” che da quel giorno diventò praticamente
l’inno dei tifosi in tutte le occasioni felici e lo è
tuttora. Anche perché quell’inno bellissimo (che è la parte più
conosciuta della famosa canzone napoletana“ ‘O surdato nnammurato”)
ebbe il suo suggello con un titolo a tutta pagina sul
settimanale “Lo
Sport del Mezzogiorno”, che enfatizzò l’avvenimento
romano coinvolgendo tutta la tifoseria azzurra. (Andate
a leggere anche la cartella "Amarcord"). Nella foto,
la famosa prima pagina de "Lo Sport del Mezzogiorno" del 1975.
A
JULIANO DOPO LA BOTTIGLIETTA UNA MAGNUM CON CHAMPAGNE
(1975-76)
Grande senso di
sportività del Napoli e di Juliano sul campo di Perugia.
Il Napoli pareggia 2-2 e Juliano durante la gara viene
colpito da una bottiglietta lanciata in campo da un
tifoso perugino. Juliano evita speculazioni allontanando
lui stesso l'oggetto in campo che non era sfuggito
all'arbitro Menicucci. Il Perugia viene solo multato e
per ricompensa offre al Napoli una maxibottiglia da
cinque litri di champagne per brindare alla successiva
partita esterna degli azzurri a Como (1-0 per il
Napoli).
LA SCUSA DEL FURBO DI MARZIO
(1977-78) -
Gianni Di Marzio il
giorno della prima volta sulla panchina del Napoli.
Successe a Bressanone, sede del ritiro estivo
nell’attesa partita inaugurale. Correvano e aggredivano
i ragazzotti del Brixen, elettricisti e muratori,
postini e albergatori. Brixen è il nome di Bressanone in
tedesco. Durò poco, attimi appena, la foga dei
dilettanti locali. I giornalisti inviati al seguito al
seguito del Napoli osservavano la partita a pochi
centimetri dalla panchina occupata dallo sveglio Di
Marzio. Qualcosa bisognava inventarsi per tentare di
coinvolgere i giornalisti e spiegare la modesta
prestazione . “Giorgio, che brutto
scherzetto mi hai fatto”. Giorgio era Vitali detto
Sereno, fresco diesse del Napoli assunto al posto di
Riccardo Sogliano, terrorizzato e rinunciatario dopo la
volata in auto nella notte da Roma a Milano. Al volante c'era
un Ferlaino scatenato, titolare anche del brevetto di
pilota di aerei dopo aver partecipato a corse
automobilistiche (la famosa Targa Florio in Sicilia e
altre gare). “Questi di Brixen sono stranieri veri”
esclamò Di Marzio, a discolpa degli azzurri, per
convincere la stampa. Niente male, come battuta. Vitali
restò stupito dalla faccia tosta, divertiti i giornalisti.
Nella foto Di Marzio con il dottor Emilio Acampora,
lo storico medico sociale del Napoli.
VIA
JULIANO, COL
PLACET
DI DI
MARZIO (1978-79)
- Come si spezzò il filo
tra il Napoli e Juliano, capitano storico di tante
battaglie, rappresentante partenopeo nella Nazionale?
Sembrava inamovibile lo “scugnizzo”, anche se per il suo
carattere ed il suo ruolo dettava legge, oltre che in
campo, pure nei
rapporti con la Società. Era sempre l’ultimo a firmare i
contratti di reingaggio e quasi sempre fece valere le
sue ragioni (e le sue pretese). Fu ancora una questione
di “vil moneta” a determinare l’addio di Totonno.
Durante l’estate che introduceva al campionato 1978-79,
a seguito dei frequenti “scontri” con Ferlaino, fu
posto a Juliano (col beneplacito di Di Marzio)
l’aut-aut: o accettava un reingaggio di 50 milioni,
oppure gli veniva offerto un incarico dirigenziale.
Totonno che pensava di meritare di più (in soldi: 120
milioni) e di poter dare di più (sul campo), chiese al
Napoli la
lista gratuita e la ottenne. Poi per dimostrare di
essere ancora valido si accasò con il Bologna,
rivelandosi ancora utile. In verità, l'allenatore azzurro Di Marzio non fece niente per
trattenerlo al Napoli. Disse solo in proposito: “Alla sua età il crollo può avvenire
da un momento all’altro”. Antonio Juliano ritornerà poi nel Napoli,
con alterne fortune (e polemiche) da dirigente,
protagonista soprattutto nelle trattative per gli
acquisti di Krol e Maradona.
LE
"PRODEZZE" AMATORIE DI KROL PRIMA DI GIOCARE
(1980-81)
– Nella stagione di Marchesi e di Juliano, nel
Napoli del terzo posto, un ruolo importante fu recitato
da un nobile decaduto, Rudy Krol, che Juliano con un gran
colpo era andato a pescare al Vancouver, in Canada, dove
era finito dopo le imprese con la nazionale olandese.
Anche Krol, come poi Maradona, fu acquistato e tesserato
in extremis, quando gli uffici della Lega erano già
chiusi. Il telex di autorizzazione dal Canada restò
bloccato da uno sciopero. In duemila andarono
all’aeroporto ad accogliere Krol. Aveva trent’anni, ma
era ancora valido. Di fronte alle perplessità di
qualcuno, rassicurò tutti – a buon ragione – il dottor
Emilio Acampora, apprezzato medico del Napoli di lungo
corso. Krol si allenava seriamente e diventò il leader
che mancava al Napoli, trasformato dall’allenatore
Marchesi in battitore libero, terzo e quarto posto nelle
prime due stagioni. Nelle strade apparvero diversi
striscioni inneggianti all’olandese. Intorno al “bel
tulipano” fiorirono molte voci: una di queste sosteneva
che Krol spesso estendeva le sue prodezze anche in campo
amatorio, persino prima delle partite. E soprattutto a
Napoli, ciò che non si fa non si sa. Fu messo K.O. dopo
quattro stagioni da un serio colpo al menisco. Nella
foto, a destra, il medico sociale del Napoli, Emilio Acampora, vera
"istituzione" .
L’IMMANCABILE BANANA DI RUDY,
LO SCIUPAFEMMENE
(1980-81)
-
Rudy Krol irresistibile sciupafemmene, non solo sublime
calciatore totale? L’olandese dongiovanni inarrivabile?
A Napoli eventualmente di giorno, mai però di notte.
Banditi i night, tabarin, discoteche e quant’altro:
alle 20 il bel Rudy era già a casa, in pantofole,
sprofondato nel divano davanti alla tivù, in compagnia
della splendida moglie Yvonne. Casalingo dalle otto di
sera, ma grande camminatore nelle mattinate napoletane.
Il corpo scultoreo sempre vestito soltanto con una polo
a maniche corte, anche d’inverno, e via, avanti e
indietro lungo via dei Mille. Sotto gli occhi incantati
di signore e giovincelle: si favoleggiò allora di
conquiste innumerevoli. Laddove non si favoleggiò,
invece, fu sulle abitudini professionali del grande
olandese. La colazione-pranzo al “Miranapoli”, a via
Petrarca, cornetto, cappuccino, una banana immancabile,
per aumentare le energie, e subito al San Paolo, per il
rito prima dell’allenamento. Arrivava per tempo, prima
degli altri, Krol, si prendeva cura personalmente delle
scarpe da gioco (a differenza degli altri), e aspettava il giornalista che aveva
chiesto l’intervista su appuntamento. S’affacciava sulla
porta dello spogliatoio all’ora convenuta e se il
giornalista non c’era o era in ritardo, tutto
veniva rinviato ad una successiva occasione.
La colpa era dell’altro, non sua.
Lui era preciso in ogni circostanza, com'era
sempre disciplinato e diligente sul terreno di
gioco.
L’AUTOGOL MALEDETTO DI FERRARIO
DOPO 1'
CONTRO IL
PERUGIA
(1980-81)
- Fu uno dei campionati in cui il Napoli sentì
il profumo dello scudetto e lo allontanò nel finale di
stagione. La squadra che aveva eletto a portabandiera Krol, nuovo idolo dei tifosi, e che si avvaleva di
Antonio Juliano come Direttore Generale, alla fine del
girone d’andata era a due punti dalla capolista Roma e
alla 25° giornata era addirittura al primo posto,
insieme con la Roma e la Juve. C’era la possibilità di
prendere il volo verso lo scudetto, grazie a due partite consecutive al
San Paolo, a cinque giornate dalla fine della stagione. Ma
accadde l’imprevisto: il Perugia, già retrocesso, andò in
vantaggio, a Fuorigrrotta, dopo solo un minuto, a
seguito di una disgraziata e bislacca autorete di Ferrario e al
Napoli non bastarono i restanti 89’ per raddrizzare la
sciagurata partita. Su Ferrario fiorirono anche facili
illazioni, per fortuna mai dimostrate, legate al calcio
scommesse. Né il Napoli successivamente fece di
meglio contro la Fiorentina: appena un pari. Gli azzurri
dovettero accontentarsi così del terzo posto, dietro Juve e
Roma. Ma da quell’infausto finale, come abbiamo detto, cominciarono a
circolare voci e supposizioni sul calcio scommesse,
su giocate effettuate nel Lazio, con testimoni poi
sfuggiti alla denuncia, sospetti che accompagneranno il Napoli fino allo
scudetto quasi vinto e poi mancato nell’era Maradona. Si
parlò anche di un colossale premio-partita promesso al
Perugia (e, guarda caso, uno dei suoi giocatori “sottoscrittori” del
patto finì poi col trovar posto in una grande squadra).
Nella foto, il difensore Ferrario: finì in una
tempesta di polemiche.
GIACOMINI PORTAVA SFIGA
(1982-83)
- Il cappotto della sfiga. Anche di questo i tifosi
accusarono Massimo Giacomini, tecnico preparato in lite
con la fortuna durante la sua breve permanenza a Napoli.
Giacomini vestiva di nero, paltò compreso. Faceva chic,
era elegante. Quasi sempre in cravatta. Ma non portava vittorie, i tifosi dettero
all’allenatore del menagramo. Leggenda popolare,
Giacomini, che era subentrato a Marchesi, incolpevolmente, passò per una
"ciucciuvettola".
Sciò, sciò. Era soltanto troppo mesto per il vulcanico,
appassionato popolo napoletano. E fu sostituito in corso d’opera
dal tandem certamente più dinamico Pesaola-Rambone, i quali riuscirono
a tenere in tenuta di galleggiamento la squadra,
minacciata dalla Serie B. Nella foto ,
un'espressione desolata, cupa di Giacomini.
PESAOLA COL SANTINO NEL CAPPOTTO
(
1982-83) - Il ritorno
di Pesaola allenatore. Napoli-Genoa allo
stadio San Paolo, i nostri eroi erano sprofondati in
piena zona retrocessione, il Napoli rischiava davvero di
finire in serie B. Nel guardaroba il famoso cappotto di
cammello portafortuna, il Petisso s’affidava, però,
anche al santino. Lo baciava. Le labbra appiccicate
all’immagine in oro della Madonna, mentre Moreno
Ferrario eseguiva il calcio di rigore del pareggio. Finì
1-1. E Pesaola col santino finì nella prima pagina dello
sport del “Mattino”. Poi raggiunse la sospirata
salvezza.
GUERRA A FERLAINO, ANCHE
DAL CIELO
(1982-83)
- Un campionato sofferto per la società, per
l’allenatore, per il pubblico, risoltosi alla fine con
un’insperata salvezza, ottenuta dal tandem Pesaola-Rambone in panchina. Si cominciò con il
fallimento dell’allenatore Giacomini, si continuò con le
minacce a Ferlaino da parte dei tifosi (una bomba carta
sotto casa, un’altra contro i botteghini dello stadio S.
Paolo,
un presidente di un "Napoli Club", inoltre, nell'ottobre del
1982, noleggiò persino un
aereo da turismo che volteggiò a lungo sulla città e sul San
Paolo, durante Napoli-Roma, con la scritta “Ferlaino
via, Juliano torna!”), mentre l’ex presidente Roberto
Fiore tuonava in televisione contro Corrado Ferlaino,
invitandolo a cedere il pacchetto azionario del Napoli, imitato
persino dal
sindaco Valenzi che chiedeva le dimissioni di tutti i
dirigenti. Conseguenza: Ferlaino, stanco ed offeso,
si dimise (ma senza vendere ovviamente le azioni) affidando la guida della
società a Marino Brancaccio. Per fortuna, dopo un
periodo nero, la squadra infilò un buon finale di
campionato (6 vittorie, 7 pareggi, 2 sconfitte) che
portò il Napoli alla salvezza.
Tre
calci di rigore a favore
decisivi ( realizzati tutti da Ferrario) dettero lo
spunto alle male-lingue per ipotizzare un aiuto esterno,
ottenuto da quel furbastro di Ferlaino dietro le quinte.
Nella foto, l'aereo da turismo volteggia sul San
Paolo con lo striscione contro il presidente Corrado Ferlaino,
durante il derby perso dal Napoli per 1-3 con la Roma
nell'ottobre del 1982.
LA VANA
BATTAGLIA PER LO STADIO SALLUSTRO
(1983)
- Con la morte di Attila Sallustro, il 23 maggio
1983 a 75 anni, si ricominciò a parlare e poi a proporre
l’opportunità di intestare lo stadio di Fuorigrotta al
grande e primo idolo napoletano. Il San Paolo da
intitolare a Sallustro, come San Siro era stato
successivamente
intestato a Meazza, due campioni della stessa era. In
materia di…santità c’era, quindi, un precedente
illustre. Fu un'inutile battaglia. Era stata già persa
anche
al momento dell’inaugurazione dello stadio di Fuorigrotta
nel 1959. Allora prevalse San Paolo, su pressioni
della Curia, in quanto l’Apostolo era sbarcato in Italia
nella zona flegrea. Per tutta risposta nel 1999,
l’Ufficio Toponomastico e il Comune, attraverso la
Giunta, decisero , con numero di protocollo 514, di
intitolare una strada a Sallustro in una zona popolare
alla periferia di Ponticelli, adiacente al Parco
Azzurro e ad una distesa per footing. Sallustro prevalse
dopo aver rivaleggiato con Ondina Valla, olimpionica
negli 80 ad ostacoli a Berlino nel 1936. Nemmeno una,
pur sobria, cerimonia, né una comunicazione alla Stampa,
le tabelle venero sistemate in forma molto anonima,
peraltro senza il necessario contatto con i familiari
del campione (come sostiene il figlio di Sallustro,
Alberto che, avendo appreso dal nostro sito la notizia
della strada a Ponticelli, ora polemizza con il Comune
di Napoli). Nella foto, la tabella comunale per Via
Attila Sallustro, in un rione popolare di Ponticelli.
“PURTATE
'O 'CCAFE' A 'STI QUATTO PEZZIENT”
(1983-84) Senza l’assenso di Ferlaino, il presidente pro-tempore Marino Brancaccio
richiamò Juliano come dirigente. Personaggio molto
orgoglioso, ma anche scomodo sia da giocatore che dietro
la scrivania. Ai suoi tempi d’oro, quando giocava in
Nazionale, rifiutò un ingaggio favoloso del Milan,
sottolineando “Non vado a fare il servitore a quello
li”, cioè Gianni Rivera che aveva sempre bisogno di un
compagno di squadra vicino che corresse anche per lui. Juliano non
andò sempre d’accordo con i giornalisti. C’è chi
sostiene di averlo sentito dire negli spogliatoi ad un
magazziniere “purtate ‘o ccafè a ‘sti quatto pezzient”,
pretese di trattare di acquisti solo con i presidenti,
inimicandosi gli addetti al mercato, e non era amato dal
presidente della Federcalcio Sordillo. Per fortuna,
Juliano ebbe
due colpi di genio con le trattative per Krol e Maradona.
Nella foto, Marino Brancaccio col dirigente
Antonio Juliano, nella sede del Napoli.
IL RAGGIRO DI FERLAINO PER TESSERARE MARADONA (1984-85) - Dopo due consecutive e
sudate salvezze, eccoci all’anno di Maradona. Diego, il
miglior calciatore del mondo, era in rotta col
Barcellona. Il "pibe" aveva già espresso parere favorevole
per un trasferimento al Napoli. Juliano approfittò della
situazione ed intavolò una trattativa rocambolesca con
furbizia e con una serie di circostanze favorevoli. Il
Barcellona fu preso in contropiede, con un telex-pirata
di accettazione dell’offerta di Ferlaino,
spedito
a Napoli da un
“traditore” dalla sede spagnola. Telex ovviamente
depositato dal Napoli. Occorrevano ora i soldi, 13
miliardi. Furono trovati con l’intervento della politica
(Enzo Scotti) e delle banche. In garanzia fu dato il
Centro di Soccavo. Ferlaino in persona completò l’opera.
Mancava la firma di Maradona e incombeva il 30 giugno,
la scadenza per il deposito dei contratti. Il presidente
passò per la Federazione consegnò al portiere una busta
vuota, volò con un aereo privato a Barcellona, ottenne
la firma di Maradona sotto il contratto, ritornò
velocemente a Milano e quasi all'alba, alle quattro, “convinse”
il guardiano notturno a sostituire la busta fasulla con
quella contenente la firma di Diego. Così il 7 luglio il
fuoriclasse fu presentato al San Paolo in un memorabile
e singolare pomeriggio, con lo stadio pieno di
settantamila spettatori, ognuno dei quali aveva pagato
mille lire solo per vederlo. Il primo campionato di
Diego, però, non fu tra i più esaltanti. Il Napoli si
classificò ottavo, nonostante i 14 gol di Maradona.Nella
foto, la presentazione di Maradona ai tifosi azzurri
SCUDETTI VINTI E PERSI
TRA MISTERI
(1986-87) Dopo due anni di transizione del “fenomeno”,
il Napoli riveduto e corretto, anche grazie ad Allodi
(che aveva sostituito Juliano) mise insieme la squadra
dei sogni: Bianchi in panchina, Garella, Renica, Pecci,
Giordano, l’irruzione di Ferrara, al fianco di Bagni.
Addirittura la costruzione del grande Napoli cominciò
con riunioni segrete a Milano nella primavera dell'85
tra Allodi, Ferlaino e Bianchi che allenava il Como. Fu
lì che, ogni lunedì, in un albergo, furono gettate le basi in gran
segreto del nuovo Napoli. E
dopo l’ottavo posto di Marchesi ed il terzo posto
di Bianchi, ecco la stagione dello
scudetto, con Maradona ancora esaltato dal trionfo
mondiale. A completare l’organico, arrivarono De Napoli,
Carnevale e soprattutto Ciccio Romano, strappato alla
Triestina in B. E alla fine fu un tripudio per lo
scudetto (di cui parliamo a parte), davanti alla Juve e
all’Inter, con una festa da brivido in tutte le strade
di Napoli. In aggiunta, arrivò il successo in Coppa
Italia. La replica nel campionato successivo non ci fu.
Moggi aveva sostituito Allodi, colpito da un ictus,
Careca aveva potenziato l’attacco, il Napoli partì bene,
poi fu vittima di un cedimento fisico, subì la rimonta
del Milan di Sacchi ( che recuperò otto punti sugli
azzurri) ed una serie di risultati un po’ “strani” dei rossoneri. Sugli azzurri piovvero,
inoltre, accuse di scarso
rendimento, polemiche per la rottura con l’allenatore
(attraverso un comunicato anti-Bianchi firmato da tutti
tranne
che da Maradona che era al mare), sospetti su un
giro di scommesse che aveva coinvolto anche alcuni
azzurri. Bagni, Garella, De Napoli e Ferrario furono
ritenuti i maggiori responsabili della rivolta contro
l’allenatore. Del resto, non c’era mai stata molta
simpatia tra gli azzurri ed il mister. Bianchi in
aggiunta al suo carattere severo, distaccato, si
rifiutava persino di mangiare alla stessa tavola dei
giocatori. Il primo segnale importante era arrivato,
comunque, alla fine del campionato del primo scudetto,
ad Ascoli, ultima giornata. Nel pullman azzurro che
riportava la squadra a Napoli – a scudetto conquistato -
si era levato un coro indirizzato a Bianchi “Te ne vaje
o no, te ne vaje sì o no?. Dato l’addio al secondo
scudetto, il 1988-89 fu la stagione dell’epurazione, ma
fu anche la stagione di un’Inter tritatutto che vinse il
campionato con undici punti di vantaggio sul Napoli,
secondo. Per fortuna, arrivò la conquista della Coppa Uefa, con
l’indimenticabile finale di Stoccarda. Intanto
cominciava a maturare il caso Maradona, sempre
più schiavo
della cocaina, e dell’alcool, troppo debole al fascino
femminile, e in rotta con Corrado Ferlaino. Le cose per Diego
peggioreranno, ma il Napoli ebbe la forza di ritornare
campione nell’89-90, sotto la guida di Bigon. Nuova
festa, a Napoli anche se più contenuta. Nelle foto, Allodi
con Punzo al San Paolo, ed in basso il volto severo di Bianchi.
DIEGO
AVEVA UNA LICENZA SPECIALE
(1986-87)
- Solo dopo vent'anni dal successo tricolore del Napoli,
Arrigo Sacchi ha rivelato una confessione fattagli da
Ciro Ferrara: " Ciro mi ha confidato che i giocatori di
quel Napoli fecero un patto di spogliatoio, tutti
insieme, sapendo che Maradona non avrebbe mai lavorato
come gli altri: furono intelligenti perchè seppero
trasformare in una grande forza un'anomalia nelle
squadre di calcio, mettendo da parte le gelosie". Questo
spiega perchè non ci fu mai insoddisfazione tra gli
azzurri per il comportamento "indisciplinato" di
Maradona a livello di allenamenti. Sapevano ed erano
d'accordo che Diego godeva di una "licenza" particolare.
Non doveva essere preso ad esempio per lavorare di meno.
E spiega anche perchè i tecnici, soprattutto Bianchi,
cercarono di convivere con quel patto di spogliatoio,
chiudendo un occhio, trovando accorgimenti e
compromessi. Sapevano tutti, presidente, allenatore e
giocatori che con Diego "sereno" e motivato c'era tutto
da guadagnare (anche economicamente...). E li avrebbe
guidati ai successi. Tutto ciò finchè lo spogliatoio fu
retto da quel grande nocchiero che fu Bagni, un vero
vice-allenatore in campo. Poi dopo il primo scudetto il
rapporto tra Bagni ed i suoi compagni si ruppe. Gli fu
rimproverato di giocare con una gamba sola per i suoi
problemi ad un ginocchio. Non volevano correre anche per
lui (che grosso errore!), Bagni se la prese con Bianchi
che aveva dato ascolto ad alcuni giocatori e lo aveva
escluso dalla formazione. Il Napoli pagò così con un
mancato scudetto il feeling che si era rotto negli
spogliatoi. Per fortuna - cambiando alcuni uomini -
arrivò poi lo scudetto del '90. Ma arrivarono anche la droga
l'alcool e le esagerazioni di Diego a rovinare tutto .
Nella foto Ferrara, un grande amico di Maradona.
E FERLAINO RIFIUTO’ DI
FARE IL SENATORE
(1986-87)
- Dopo la conquista del primo scudetto, Corrado Ferlaino fu allettato dalla proposta di lasciare la
presidenza della società azzurra e di presentarsi come senatore
in un collegio sicuro, nelle file della Democrazia
Cristiana. Ciriaco De Mita avrebbe voluto sfruttare la
popolarità di Ferlaino ingigantita dal freschissimo trionfo
tricolore, per raccogliere voti. Ferlaino (che voleva
godersi da presidente quel momento magico) declinò però
il prestigioso invito. I bene informati hanno rivelato
che il progetto di Ciriaco De Mita fallì, invece, in quanto Ferlaino per valutare
il suo ingresso in politica aveva
chiesto il prezzo per acquistare “Il Mattino” giornale di
proprietà della D C... E tutto finì lì. Nella
foto, Ciriaco De Mita
MOGGI RE DEI DEPISTAGGI
(1987-88) -
Moggi il depistatore.
“Vi aspetto a cena, mi raccomando, non mancate, ci
vediamo alle 21 all’hotel Brun”. I giornalisti che si
occupavano di calciomercato si ritrovarono così al
centro di un depistaggio in piena regola. L’invito era
un pretesto per non destare sospetti: Luciano Moggi
sapeva che lui alla cena non ci sarebbe mai andato. I
giornalisti no, fino a quando non s’imbatterono nei
dirigenti del Pescara, alla reception dell’albergo
Milanofiori. Abbacchiati, il presidente Scibilia e gli
altri, erano di ritorno dalla Spagna: missione fallita,
quei due brasiliani costavano troppo. “Siamo atterrati
poco fa a Linate. Il comandate dell’aereo privato si è
lamentato con noi: “La mia giornata non è finita, ci ha
detto, devo prendere Moggi del Napoli e accompagnarlo a
Madrid”. Una finta, quindi, la cena. La classica bugia
di un abile operatore di mercato. Moggi a Madrid per
fare cosa? “Prende Vanenburg per il Napoli”, e qualcuno
abboccò pure. L’informazione corretta arrivò
invece dall’agente argentino Ricardo Fuijca, un vecchio
amico. “Moggi è atteso nella sede dell’Atletico Madrid,
lo aspetta il presidente Gil. Parleranno di Alemao, ci
sarà la firma sul contratto di trasferimento del
brasiliano al Napoli”. Moggi, soddisfatto per il
depistaggio, fece poi ritorno all’alba al “Brun”, dove
trovò cinque giornalisti stravaccati nella hall, affamati di sonno, ma sazi di emozioni. Moggi
pensò di aver raggiunto lo scopo di tenere nascosto
l’acquisto, ma due giornali, a quell’ora già in edicola,
portavano la notizia e il titolo “Alemao è del Napoli”.
E Moggi dovette così incassare: stavolta non gli era riuscito…
FERLAINO AVEVA ACQUISTATO VIALLI, MA POI STRAPPO' IL
CONTRATTO (1987) Vent’anni dopo,
a settembre del 2007, Ferlaino ha rivelato al giornalista
Paolo Barbuto de "Il Mattino": “A giugno del 1987,
all'insaputa di tutti, avevo acquistato Gianluca Vialli dalla Samp. Era il 17 giugno, da un mese avevamo
festeggiato
il
nostro primo scudetto e cercavo altri rinforzi. Avevo
raggiunto l’accordo con il presidente Mantovani sul mio
yacht, il Double G, al largo di Positano. Affare
concluso, nonostante le cento smentite che eravamo
costretti a fare quasi tutti i giorni. Non ricordo la
cifra, penso tra i sette ed i dodici miliardi, come
scrissero i giornali dell’epoca che parlavano della
trattativa. Dopo la firma con Mantovani, feci chiamare
al telefono Vialli per parlargli, ma lui si mostrò
scontento, voleva restare a Genova, mentre io volevo in
squadra solo giocatori che desideravano la maglia
azzurra. Così strappai il contratto”. Vialli aveva 23
anni e restò per altre cinque stagioni alla Samp, vinse
uno scudetto nel 1991, per poi passare alla Juve. Il
Napoli, invece, da poco aveva vinto il suo scudetto e
Vialli avrebbe dovuto inserirsi in una squadra che nel 1987-88,
dopo il primo tricolore, si schierò invece così: Garella,
Ferrara, Francini, Bagni, Ferrario, Renica, Careca, De
Napoli, Giordano, Maradona, Romano. Al posto di chi
avrebbe giocato Vialli? Nella foto, Gianluca
Vialli con lo scudetto della Samp sul petto.
“SONO MARADONA,
ARRESTATEMI PURE!”
(1989-90) - La stagione del
secondo scudetto. Il "caso
Maradona" era sempre più di
attualità. Diego non era tornato dall’Argentina. Il
campionato del Napoli e di Bigon era cominciato senza il
capitano, ma quando Maradona decise di rientrare, alla
quinta giornata, il Napoli era già in testa alla
classifica. Diego continuava a preoccupare Ferlaino.
Tutti sapevano delle sue debolezze e tutti lo coprivano. O facevano finta di non sapere. Diego proseguiva a non
voler riconoscere il figlio avuto dalla Sinagra,
trascorreva molti pomeriggi in albergo, con largo
consumo di whisky e di droga, in compagnia di donne –
dicono - anche a pagamento, purchè non avessero grilli
(pretese) per la testa. Frequentatore di night, una volta fu
coinvolto in una rissa in un locale posillipino.
Tendendo i polsi ai poliziotti esclamò: “Sono Maradona,
arrestatemi pure!”, spuntarono dalla Questura le foto con i fratelli Giuliano di
Forcella in una vasca da bagno a forma di conchiglia.
Cominciò a sfiorarlo seriamente la camorra. E cominciò a
seguirlo nel "vizio" anche qualche compagno di squadra,
che poi ebbe la forza di fermarsi. Diego, invece, non
cambiò strada nemmeno quando (novembre '89) volò in Argentina per
sposare Claudia, la madre delle sue due figlie, con una
sfarzosa cerimonia. Ferlaino
era al corrente della vita disordinata
dell'argentino, ma non
voleva essere
lui a svelare certi episodi. Non intendeva
ancor più inimicarsi il campione. Confidava
certe “scappatelle” e certi “vizi” di Maradona al
direttore de Il Mattino, Pasquale Nonno, durante le loro
periodiche partite di tressette, con
l’intenzione e la speraanza che le malefatte di Diego venissero
denunciate dai giornali. Oggi possiamo dire che se fosse scoppiato qualche
scaldaletto prima, forse si sarebbe salvato l’uomo Maradona. Con Bianchi, dietro le apparenze e le
dichiarazioni postume di questi anni (molto benevoli),
il rapporto era sempre teso. Maradona non poteva
ammettere, tra l'altro, gli allenamenti alle 10 di
mattina e spesso li disertava. Bianchi, invece, li
pretendeva non perchè fossero tanto utili alla
preparazione, ma perchè lui riteneva che l'appuntamento
di mattina allo stadio fosse l'unico modo per impedire a
Maradona di tornare a casa all'alba "fatto" di coca e
alcool. Si andò avanti così tra bugie e compromessi. Alla fine, comunque, arrivò il secondo
scudetto, ma Diego era avviato ormai verso il definitivo declino fisico e morale.
Al centro la famosa immagine di Diego con i fratelli
Giuliano di Forcella, nella vasca da bagno a forma di
conchiglia. A destra, Diego e Claudia sull'altare
durante il matrimonio svoltosi nel novembre del
1989.
DIEGO SI SENTI’ TRADITO
DA FERLAINO
(1990-91)
– Fu l’ultima stagione di Maradona.
L’argentino aveva superato – e non si sa come – tutti i
controlli antidoping, ma dopo Napoli-Bari del 7 marzo
del 1991 risultò positivo alla cocaina. Squalifica di
quindici mesi. La sua ultima presenza in campionato fu a
“Marassi” contro la Sampdoria dove segnò su rigore
l'unico gol azzurro di un sonorissimo 4-1. Ormai Maradona non
era più il campione osannato, anche se restava, e lo è
ancora, nel cuore dei tifosi Dopo sette anni, partì così per l’Argentina, dove
continuerà a far parlare
di se per varie implicazioni con la droga e per la sua
salute compromessa. Diego ha sempre incolpato Ferlaino
(oltre che per la mancata - e promessa - cessione al Marsiglia dopo la
conquista della Coppa Uefa) di averlo scaricato, di non
averlo “protetto” fino all’ultimo (si riferisce ai
controlli antidoping?). Ha parlato di trabocchetto nel
fatale controllo dopo la gara col Bari, una vendetta
ordita all’interno del club azzurro, che ormai lo
riteneva irrecuperabile e voleva chiudere il rapporto
“per colpa” dell’argentino, ancora amato dai tifosi.
Ecco perché Diego dopo la squalifica ha sparato sempre palle di fuoco
contro Ferlaino. Nella foto, Diego ed il figlio
entrambi con l'immagine del Che Cuevara tatuato sul
braccio destro.
ZOLA,
2 GOL IN CAMBIO DEL SUO CANE “SMARRITO”
(1992-93) Durante
Napoli- Fiorentina del 29 novembre del 1992, Zola guidò
al successo il Napoli di Ranieri ad un netto successo
sulla Fiorentina, 4-1 al San Paolo. Zola realizzò una
doppietta, un gol sul finire del primo tempo e l’altro
quasi al termine della ripresa, diventando
l’uomo-partita. Intervistato negli spogliatoi dai
giornalisti, gli fu chiesto a chi dedicava quei due gol:
“Non voglio fare una dedica, ma preferisco lanciare un
appello a chi è entrato in possesso del mio amatissimo
cane, un husky bellissimo, che non ho trovato più, disse
Zola. Come premio per i due gol alla Fiorentina
desidererei riavere indietro il mio cane. Mi fa molto
compagnia, è allegro e giocherellone, ma soprattutto
socievole con tutti, cani e persone,” Detto, fatto, la
sera stessa del lunedì, dopo aver letto l’intervista sui
giornali, il nuovo “possessore” di quel cane, di origine
siberiana e dal pelo delicatissimo, restituì
all’attaccante azzurro il suo grande amico. A Napoli
capita anche questo. Qualche anno prima era stato
restituito a Luciano Moggi un motorino del figlio,
trafugato, anche allora dopo averne parlato con i
giornalisti napoletani.
E LIPPI TAGLIO' LA CORDA
(1993-94)
-
Marcello Lippi, futuro cittì campione del mondo, passato
dall’Atalanta al Napoli, auspice Ottavio Bianchi,
diventato nel frattempo direttore generale azzurro. Il Napoli con Lippi alla fine
si qualificò per la Coppa UEFA, nella stagione degli
stipendi non pagati ai giocatori e della messa in mora
della società.
Un’impresa in un brutto momento. Ma Lippi che fa, resta? Il futuro del
tecnico diventò libro aperto quando il digì Carlo
Jacomuzzi chiese a Narciso Pezzotti di assumere
l’incarico di allenatore in seconda del Napoli. “Mi
dispiace, non posso, ho già un impegno. Marcello Lippi
mi ha portato con lui alla Juve. Davvero non sapete che
sarà lui ad allenare la Juve il prossimo anno?”. Lippi, zitto
zitto, aveva già tagliato la corda. E a Napoli nessuno
sapeva niente...
BOSKOV
PREFERI’ IMBRIANI AD INZAGHI
(1995-96)-
Voujadin Boskov, nel periodo post-Maradona, fu
uno dei personaggi più pittoreschi del Napoli. Famoso per le sue
frasi lapalissiane “rigore c’è quando arbitro fischia”,
“un punto è meglio che niente”, “vince
lo scudetto chi ha fatto più punti”. Aveva vinto il primo e
storico scudetto con la Sampdoria di Vialli e Mancini
nella stagione 1991-92. Quando Ferlaino andò nella sua
villa di Genoa, non riuscirono a trovare un foglio di
carta per stendere l’accordo. Boskov rimediò aprendo un
pacchetto di sigarette della moglie (giornalista) e
fissò pochi termini dell'accordo sulla parte bianca del foglietto
argentato che conteneva le sigarette. Il nuovo tecnico
non aveva, però, il patentino di allenatore e assunse
fittiziamente anche nel
Napoli la qualifica di Direttore Tecnico, coadiuvato da Canè come allenatore. Con il suo entusiasmo
coinvolgente, Boskov riuscì a dare la carica giusta alla
squadra azzurra che raggiunse un tranquillo settimo posto in
classifica. Fece, dunque, buone cose nel Napoli, ma si
deve anche a lui il mancato acquisto di Inzaghi. Ferlaino,
grazie ai buoni rapporti con Calisto Tanzi, aveva praticamente
chiuso l’ingaggio dell'attaccante che stentava a giocare
nel Parma. Inzaghi all’aeroporto, in attesa dell’aereo
che doveva portarlo a Napoli per le visite e per la
definizione della trattativa, lesse su un quotidiano
sportivo un’intervista a Boskov, in cui il tecnico del
Napoli alla domanda del giornalista: “Lei lo sa che il
Napoli sta acquistando Inzaghi?” aveva risposto “Ma noi
abbiamo già Imbriani. E ci basta...Preferisco lui”. Al che Inzaghi commentò
sorpreso: “Se devo
andare a fare la riserva a Napoli, tanto vale allora che la
faccio nel Parma…” E tornò a casa deluso, ma ben deciso
e convinto della sua decisione. Ferlaino ritornò alla
carica con Tanzi, ma nel frattempo il Parma incontrò
in Coppa delle Coppe l'Halmstad. Inzaghi segnò dopo un
minuto e trascinò il Parma verso un clamoroso 4-0
e alla qualificazione. Quando Ferlaino si presentò
da Tanzi per firmare, incurante delle convinzioni di
Boskov, si sentì rispondere. "Mi dispiace, mi scusi, ma
dopo quella partita ora non posso più cederlo. Dovevamo
farlo prima..." E Ferlaino fu costretto ad arrendersi.
Se Boskov non avesse parlato...Poi Inzaghi si affermò nell'
Atalanta, nella Juve e nel Milan per non parlare della
Nazionale. Nella foto, Voujadin Boskov
al San Paolo, col medico sociale dr. Russo.
UN “PACCO” A FERLAINO
(1995-96) -
Corrado Ferlaino passa la mano. Vero o
finto, semivero il trasferimento del pacchetto azionario
della SSC Napoli al gruppo Gallo-Moxedano-Pinzarrone,
fu celebrato al "Centro Paradiso" alle cinque del mattino
da una passata di cornetti caldi offerti da Patrizia Boldoni, donna d’ingegno, imprenditrice e manager, terza
moglie dell’ingegnere. Ill passaggio venne seguito da
un’incauta manovra. Risultarono “non esigibili” i titoli
bancari prodotti dal socio Pinzarrone, a copertura degli
acquisti di Boghossian dall’Olimpique Marsiglia e di
Cruz dallo Standard Liegi. Il “pacco” era stato servito
al fantasioso presidente,
ma fu sventato in tempo.
CHILI
DI
MOZZARELLE FECERO INGRASSARE MATUZALEM
(1999-2000)
- Un altro giocatore bizzarro, difficilmente
controllabile nella vita privata, al pari di Maradona, (ma molto meno!) fu il
brasiliano Francelino Matuzalem Da Silva, centrocampista
proveniente dal Bellinzona. A Napoli ebbe una vita sregolata,
animatore di lunghe notti nei localini di Chiaia, finì
anche in Questura per aver fatto a pugni con dei giovani
in un’uscita serale. Matuzalem mangiava male ed aveva la tendenza
ad ingrassare, nonostante gli allenamenti. Molto ghiotto di mozzarella che gli
provenivano dalla zona flegrea, ne mangiava in
quantità…industriale. L’allenatore Novellino andò a
prelevarlo nella sua abitazione e lo "trascinò" a Soccavo, dicendogli: “Tu da qui non esci più. Alla tua
vita privata ci penso io, visto che non sei in grado di
controllarti!”. E insieme, Novellino e Matuzalem,
riportarono il Napoli in A. Nella foto, Matuzalem Da
Silva.
IL
PERIODO PIU’ TORMENTATO
ED IL RILANCIO
(1991-2007)
- Dopo gli anni magnifici e irripetibili dell'era Maradona, il Napoli non si
risollevò più. Andò avanti, per anni quasi stordito, con
molti cambi di allenatori (Lippi, Guerini, Boskov,
Simoni, Montefusco, Mutti, Mazzone, Galeone, Ulivieri,
Novellino. Zeman, Mondonico, De Canio, Colomba, Scoglio,
Agostinelli: impressionante!), cedendo o perdendo i suoi
pezzi migliori una stagione dopo l’altra per realizzare
soldi e iscriversi ai campionati (Zola, Crippa, Ferrara,
Fonseca, Thern, Cannavaro, Ayala, Schwoch, Bellucci,
Jankulovski), un vortice di compravendite, molti bidoni
piazzati in azzurro da presunti “amici”, la società
sommersa di debiti, con Ferlaino coinvolto anche in
Tangentopoli, senza più gli incassi record del San Paolo
e in cerca di acquirenti per la società, anche una
retrocessione. Quindi, la lieta parentesi del ritorno in
A con Novellino e con Schwoch, nuovo idolo della folla,
imperdonabilmente lasciato andare (Corbelli che di
calcio non ne masticava molto non lo ritenne -
sbagliando - indispensabile e ritenne di fare un buon
affare prendendo qualche soldino con la sua cessione).
La promozione fu l’unico momento di
parziale letizia dei tifosi azzurri. Poi, arrivarono l’uscita di scena di Ferlaino, furbescamente com’era entrato (ma con tanti
soldi in tasca, in cambio di molti debiti), gli errori e
il carcere di Corbelli, le dabbenaggini e le illusioni
di Naldi, il fallimento della Società, la retrocessione
in Serie C, tra gente che nel “palazzo” romano non ci amava.
Mai vissuto un periodo così infelice e tormentato .
Infine l’arrivo salva-tutti di Aurelio De Laurentiis, il
Napoli Soccer, la rinascita e la risalita. In tre sole
stagioni il salto dalla Serie C alla Serie A. Ancora
"prosit".
Nella foto, Aurelio De Laurentiis e
Marino, il tandem che sta guidando il Napoli verso
il rilancio, dopo il fallimento di Naldi.
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