Luca Pani — Ruolo della dopamina nella depressione maggiore.
Poiché l’ipotesi monoaminergica della depressione si basa sull’associazione tra la comparsa della sintomatologia depressiva e la compromissione della funzione monoaminergica centrale, si è ritenuto in passato che tale deficit potesse trovare un riscontro nella concentrazione assoluta di monoamine (serotonina, noradrenalina, dopamina) nei liquidi biologici. Fino ad oggi, le misurazioni della concentrazioni dei neurotrasmettitori e dei loro metaboliti nel fluido cerebrospinale, nell’urina e nel plasma dei pazienti depressi hanno invece fornito risultati controversi sull’identificazione certa di markers univoci della depressione. Tuttavia, quando il rilascio di neurotrasmettitori monoaminergici cerebrali a riposo e dopo somministrazione di un antidepressivo per via endovenosa, è stato studiato nel volontario sano e in pazienti con malattia depressiva unipolare resistente alla terapia, usando dei cateteri posizionati in vena giugulare interna, il blocco farmacologico del trasportatore della noradrenalina da parte dell’antidepressivo determinava la normalizzazione sia del ridotto turnover di noradrenalina sia del deficit nel metabolismo cerebrale, ma solo il turnover della dopamina cerebrale era in correlazione significativa con lo stato clinico del paziente. Dati molto recenti portano a ritenere che la deplezione delle monoamine non riduce direttamente il tono dell’umore quanto piuttosto aumenta la probabilità di soffrire di un episodio depressivo clinicamente significativo.
I cambiamenti nel metabolismo cerebrale di pazienti che ricadono dopo l’uso di falsi neurotrasmettitori suggeriscono che la riduzione della serotonina e della noradrenalina sia solo il primum movens verso l’alterazione di una via finale ancora da definire in dettaglio, ma in cui certamente la dopamina riveste un ruolo preminente. In realtà, soprattutto nelle forme croniche e in quelle più gravi, tutto ciò va ben oltre delle semplici variazioni biochimiche. L’alterazione delle monoamine e dei recettori con cui queste stesse monoamine interagiscono innesca una serie di mutazioni concatenate alla trasmissione del segnale che fisiologicamente migra dalla superficie cellulare sino alla trascrizione genica, all’interno del nucleo della cellula neuronale.
Una simile ipotesi predice che la patogenesi e il trattamento debbano, in qualche modo, coinvolgere una variazione della plasticità neuronale che rispetta i meccanismi fisiologici con cui le monoamine sono rilasciate e ricatturate. In questo senso, nella sua accezione più moderna, questa teoria presuppone che l’incapacità dei sistemi neuronali di adattarsi alle variazioni del segnale neurotrasmettitoriale e recettoriale possa contribuire alla patogenesi della depressione, ed implica altresì che i trattamenti antidepressivi (farmacologici e non) possano svolgere la loro azione terapeutica stimolando degli appropriati trattamenti nella plasticità dei sistemi neuronali e che lo debbano fare in modo progressivo e con delle minime variazioni plasmatiche. Con queste premesse l’impiego del bupropione, bloccante della ricattura della dopamina, nella sua formulazione farmaceutica a rilascio costante rappresenta una valida alternativa all’impiego di antidepressivi classici e inibitori più o meno selettivi della ricottura della serotonina e/o noradrenalina.
Nicoletta Brunello — Meccanismo d’azione dei farmaci antidepressivi.
Gli antidepressivi sono farmaci con struttura chimica ed azioni farmacologiche assai diverse, che vengono accomunati per l’effetto sul tono dell’umore. Lo studio del loro meccanismo d’azione si è sviluppato in stretta connessione con le ipotesi patogenetiche delle depressione, non essendo ancora possibile dire con sicurezza quale sia l’effetto farmacologico collegato con l’effetto antidepressivo. Seconda la teoria aminergica dei disturbi affettivi, la depressione sarebbe associata ad un deficit funzionale di una o più amine (NA, 5HT, DA) a livello del sistema nervoso centrale. Ciascuno di questi neurotrasmettitori è stato localizzato nei tratti e nei nuclei cerebrali coinvolti nella regolazione del tono dell’umore, dell’affettività e dell’ansia, del sonno e dell’appetito, della ricompensa e della motivazione, della memoria e dell’apprendimento e dell’espressione delle emozioni, funzioni che risultano alterate in corso di depressione.
Nonostante questi modelli abbiano guidato la ricerca negli ultimi trentenni, non hanno tuttavia ancora permesso di arrivare a definire chiaramente il meccanismo d’azione degli antidepressivi e la patofisiologia della depressione.
Anche gli studi più recenti non sono riusciti ad identificare un’azione comune del trattamento antidepressivo sui livelli delle monoamine o sui loro recettori. Ciò non deve sorprendere dal momento che i vari tipi di trattamento antidepressivo producono effetti diversi sul sistema serotoninergico, noradrenergico e dopaminergico ed è inoltre possibili che i farmaci antidepressivi esercitino il loro effetto terapeutico attraverso più di un meccanismo.
Gli antidepressivi svolgerebbero il loro effetto terapeutico o aumentando la concentrazione di questi neurotrasmettitori (attraverso il blocco del sito di ricaptazione neuronale o della metabolizzazione) o sostituendosi ad essi nel legame col recettore.
Sulla base del meccanismo d’azione è possibile individuare diverse classi di farmaci antidepressivi: IMAO, TCA, SSRI, NARI, SNRI,NDRI e NaSSA.
I farmaci antidepressivi di maggior impiego clinico inducono un aumento della disponibilità sinaptica di NA, 5HT e/o DA sia bloccando la loro ricaptazione neuronale sia riducendo il catabolismo attraverso l’inibizione delle MAO, sia rimuovendo il tono inibitorio sul rilascio o sull’attività neuronale, attraverso l’interazione recettoriale. Sebbene questi effetti siano osservabili dopo la somministrazione acuta dei farmaci, la pratica clinica indica chiaramente che la risposta terapeutica si manifesta dopo 2 o più settimane di trattamento, suggerendo che solo le conseguenze a lungo termine di una trasmissione sinaptica possano essere alla base della loro azione terapeutica.
Giovanni Muscettola — Diagnosticare e trattare il paziente depresso: esiste una correlazione tra depressione, sintomi residui e risposta al trattamento?
I sintomi depressivi nei disturbi dell’umore sono condizionati dalla loro forma clinica, dalla loro evoluzione temporale e dal grado di efficacia di interventi psicologici e farmacologici.
I più frequenti sintomi residui nella depressione sono: disturbi del sonno, astenia, affaticamento, difficoltà di recuperare completamente la capacità di provare piacere e interesse, incompleto recupero delle funzioni cognitive o del funzionamento lavorativo e sociale, sintomi d’ansia libera o somatizzata; molto meno frequenti sono quelli nucleari della depressione quali ideazione suicidiaria, vissuti di colpa e di rovina, ipocondria, carenza di insight.
Alcuni autori hanno indicato che la gravità della depressione, life events altamente traumatici e presenza di personalità depressiva rappresentano i più probabili fattori di rischio per i sintomi residui. La sintomatologia depressiva residua è soprattutto considerata come espressione di una risposta parziale o incompleta al trattamento.
Il rischio di ricaduta è condizionato dalla presenza di sintomi residui dopo miglioramento clinico: in uno studio su pazienti depressi con sintomi residui, seguiti per almeno dieci anni, il rischio di ricaduta è risultato essere tre volte maggiore di quello in pazienti che avevano raggiunto una completa remissione. Sono solo alcuni gli antidepressivi in grado di modificare i sintomi residui nella depressione (diminuito senso di energia, interesse o piacere, ipersonnia) o di trattare adeguatamente quadri depressivi con prevalente rallentamento, anergia e anedonia.
La scelta è ristretta alle amine secondarie dei triciclici (desipramina e nortriptilina), alla reboxetina, in parte alla sertralina e alla venlafaxina. Esistono anche due studi che specificatamente hanno valutato l’efficacia del bupropione in termini di miglioramento dei sintomi sonnolenza e affaticamento.
Giuseppe Maina — Qualità di vita del paziente depresso: evidenze cliniche, aspettative del paziente e ruolo della terapia farmacologia.
La diagnosi di disturbo depressivo maggiore secondo il DSM-IV-TR , è possibile soltanto se il quadro clinico determina una significativa compromissione del funzionamento del paziente. Un importante correlato del funzionamento è la qualità di vita, che è comunemente intesa come la percezione che ciascuna persona ha della propria posizione nella vita, nel contesto dei sistemi culturali e di valori nei quali è inserita e in relazione alla proprie finalità, aspettative, standard e interessi.
Di recente interesse è lo studio proprio della qualità di vita nelle fasi intercritiche dei disturbi dell’umore che risulta compromessa. Tale fenomeno può essere spiegato sia per la presenza di comorbilità con altri disturbi sia con la persistenza di sintomatologia residua. Proprio quest’ultima ha una profonda e negativa in termini di percezione di qualità di vita, riduzione del funzionamento sociale, familiare e lavorativo. La presenza è anche correlata al numero di precedenti episodi depressivi maggiori e sulla base di tale riscontro è stata formulata l’ipotesi del kindling o sensitization: l’elevato numero di episodi affettivi potrebbe determinare una alterazione biologica tale per cui residuano in misura sempre maggiore sintomi intercritici, espressione di una supposta patologia depressiva e tale per cui sono necessari eventi di vita via via meno stressanti per determinare l’insorgenza di nuovi episodi.
Tuttavia ciò non esclude che eventi acuti o cronici della vita possano essere un fattore scatenante all’esordio della depressione o contribuire alla cronicizzazione del disturbo. Da qui la necessità combinare l’approccio farmacologico con quello psicoterapeutico sia per ridurre la sintomatologia sia per migliorare la qualità di vita. Per quel che concerne la terapia farmacologia è di fondamentale importanza la valutazione dei profili di tollerabilità e sicurezza.
Matteo Balestrieri — Tollerabilità e compliance al trattamento: implicazioni per il medico e per il paziente.
Parametri per giudicare i farmaci antidepressivi sono efficacia, tollerabilità e sicurezza nel sovradosaggio.
Ciò che distingue in modo sostanziale i farmaci antidepressivi disponibili è il profilo di tollerabilità che ha una grossa ricaduta sulla compliance del trattamento. I fallimenti terapeutici sono numerosi e i tassi di non aderenza alla terapia sono elevati, con circa il 30% dei pazienti che discontinuano il trattamento nel corso del primo mese, circa il 45% che lo interrompono nei primi tre mesi di terapia, mentre alcuni effetti indesiderati possono essere affrontati con una modulazione dei dosaggi, altri sono di più difficile gestione. La disponibilità di farmaci a profilo farmacodinamico diverso permette l’utilizzo di alternative nella terapia della depressione.
L’introduzone del bupropione costituisce da questo punto di vista un’opzione terapeutica di grande interesse, grazie alla bassa incidenza sulla compliance del paziente, quali l’aumento del peso, la sonnolenza e le disfunzioni sessuali. Il tasso di mancata adesione alla terapia con bupropione per problemi di tollerabilità è in effetti piuttosto basso ed è attribuibile ad effetti comuni. Effetti di maggiore rilievo, come le convulsioni, sono invece riportati assai raramente e con frequenze del tutto simili a quelle degli SSRI.
Mario Guazzelli — Sessualità farmaci e depressione.
Oltre i _ dei pazienti depressi non trattati soffre dei problemi legati alla diminuzione del desiderio sessuale, mentre nella metà circa, sono presenti disturbi dell’eccitazione come la disfunzione erettile o diminuizione della lubrificazione fino a vera e propria impotenza o dispareunia. Ancora più frequenti sono i disturbi dell’orgasmo: oltre l’ 80% dei pazienti sia maschi che femmine sperimenta difficoltà di vario grado nel raggiungere l’appagamento che divengono vera e propria anorgasmia nel 20% degli uomini e nel 40% delle donne. Inoltre la RM e la PET hanno evidenziato come durante l’eccitazione sessuale e orgasmo siano coinvolte diverse regioni del sistema libico (amigdala, insula, corteccia orbitofrontale e gangli della base), la cui attività risulta funzionalmente abnorme durante la depressione.
I disturbi della sfera sessuale sono fra gli effetti collaterali più frequenti della maggior parte dei farmaci antidepressivi. Soprattutto gli SSRI e gli SNRI sembrano essere gravati da effetti collaterali sulla sfera sessuale che minano la qualità di vita di molti pazienti.
Per ovviare a questi disturbi la psicofarmacologia comincia a rendere disponibili farmaci a minor rischio di effetti collaterali di tipo sessuale: promettenti risultano la reboxetina, la mirtazapina, il bupropione.
Luigi Ferrannini — I Dipartimenti di Salute Mentale nella gestione del paziente depresso.
I disturbi dello spettro dell’umore hanno rappresentato negli anni una fascia di patologia sempre più rappresentata tra quelle di pertinenza del DSM di cui hanno assorbito crescenti risorse. Accanto alle forme più gravi dello spettro, il progressivo inserimento della psichiatria nell’ospedale generale e il suo crescente radicamento nel territorio, hanno favorito il confronto nel tempo con quadri clinici differenti, che rappresentano oggi una larga parte dei nuovi accessi al dipartimento sia in contesto di emergenza che ambulatoriale.
Il DSM ha, per le sue caratteristiche strutturali alcuni aspetti di funzionamento che lo rendono un punto di gestione privilegiato nel trattamento dei disturbi dell’umore:la concezione della polifattorialità del disturbo psichico; una visione longitudinale della malattia mentale; un intervento volto contemporaneamente al paziente e al suo contesto di vita; la garanzia della continuità terapeutica; la messa in atto di un intervento interdisciplinare, integrato ed intersettoriale, in contesti istituzionali diversi.
Riccardo Torta — Nuove prospettive nella terapia della Depressione Maggiore
Bupropione cloridrato è un inibitore della ricaptazione di dopamina e noradrenalina, senza effetti significativi sulla ricaptazione della serotonina. Bupropione è pertanto il primo composto di una nuova classe di antidepressivi, gli NDRI.
Il farmaco è stato per la prima volta introdotto in commercio come antidepressivo negli USA in formulazione Immediate Release nel 1989. Nel 1996 è stata introdotta la formulazione Sustained Release che presentava il vantaggio di migliorare il profilo di tollerabilità del composto e di aumentare la compliance terapeutica. In seguito, nel 2003, è stata approvata in USA e nel 2006 in Canada , la formulazione XL (XR in Europa), dimostratasi bioequivalente alle precedenti formulazioni, e che prevede la monosomministrazione quotidiana, con grande vantaggio per la compliance alla terapia da parte del paziente.
Il bupropione è pertanto una molecola utilizzata da piu’ di 15 anni nel trattamento della Depressione Maggiore e il suo ruolo è stato nel tempo riconosciuto e confermato.
Studi clinici condotti a livello internazionale hanno dimostrato che bupropione è efficace nella terapia della Depressione Maggiore, al pari delle altre classi farmacologiche mostrando un particolare beneficio per quei pazienti che presentano un quadro clinico caratterizzato da scarsa energia, scarso interesse e piacere.
Bupropione inoltre si è dimostrato efficace e ben tollerato nei pazienti anziani e in quei pazienti che non hanno risposto in modo soddisfacente o hanno presentato effetti collaterali con una precedente terapia con SSRI.
Bupropione ha dimostrato di possedere un diverso profilo di tollerabilità rispetto agli altri farmaci antidepressivi e risulta ben tollerato sia nel breve sia nel lungo termine.
Infine la terapia con bupropione non si accompagna a sintomi di sospensione e ha la piu’ bassa incidenza di effetti collaterali riguardanti la funzione sessuale e la sedazione, e dati clinici a lungo termine hanno dimostrato come tale farmaco non determini un aumento del peso corporeo.
Report a cura di Davide Prestia
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