Testo di
Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di
Alfonso Grasso
A Ferdinando II successe il figlio ventitreenne
Francesco II; lo storico risorgimentale Alfredo
Panzini, negli ultimi giorni di agonia del re
meridionale, a proposito della strategia di Cavour per
la conquista del Sud, osservava: “Col Bomba egli
capiva che non c’era nulla da tentare; ma il Bomba,
vivaddio, è spacciato. Rimane il figlio, come sarà?“.
Francesco “è giovane [23 anni], senza
esperienza, non è un idiota, come ne hanno spesso detto,
parla molto bene di tutto con un certo possesso e con
molto buon senso; talvolta ha l’aria di capire l’epoca,
è imbevuto dei più esagerati principi del sanfedismo: di
carattere molto debole e molto timido, costantemente
circondato da una camarilla furiosamente retrograda e
reazionaria, la quale impedisce che la verità arrivi
fino a lui”.
Al suo genitore era stato affibbiato il soprannome di
“Re bomba” a lui quello di “Franceschiello” ma “la
ridicolizzazione attraverso cui la storiografia
post-risorgimentale ha consegnato ai posteri un’immagine
storpiata di quel sovrano, è nient’altro che un’ennesima
manifestazione di infierimento su un vinto”;
in realtà era stato il popolo meridionale a dargli
questo soprannome il cui significato non era
dispregiativo, ma affettuoso; profonda era la sua
conoscenza delle leggi e dei regolamenti amministrativi
“egli li possedeva come un giurista”.
Il padre, fin da ragazzo, lo portava con sé nelle
occasioni ufficiali più importanti, nella qualità di
principe ereditario, ma certamente non poteva aspettarsi
di lasciargli il comando così presto.
Francia ed Inghilterra riallacciarono subito i rapporti
diplomatici e mandarono a Napoli i propri rappresentanti
i quali cercarono, con modi che andarono dai “consigli”
ad appena velate minacce, di attrarre il giovane e
inesperto Re nella loro sfera di influenza politica; gli
argomenti ufficiali delle conversazioni riguardavano,
però, la riattivazione della monarchia
rappresentativa costituzionale, la fine del
regime poliziesco con la concessione di un’ampia
amnistia politica e l’eventuale ingresso del regno
nella guerra in corso; al contrario, gli
ambasciatori delle potenze conservatrici (Austria,
Prussia e Russia) premevano per il mantenimento dello
status quo politico del regno delle Due Sicilie.
Francesco aveva bene in mente l’ammonimento del padre
“Costituzione eguale Rivoluzione” e temeva che,
rimettendola in vigore, si scatenassero i torbidi del
1848 con la possibilità di perdere il trono, o, come
minimo, la Sicilia la quale avrebbe proclamato il
distacco dalla parte continentale del regno; in più, in
quel momento, la riattivazione dello Statuto, che
ricordiamo era stato sospeso ma non abrogato nel 1849,
avrebbe quasi certamente significato l’alleanza col
Piemonte nella guerra in corso, cosa che egli
assolutamente non voleva.
Il 7 giugno, turbato dalle manifestazioni dei
liberali napoletani il quali, raggiunti dalla notizia
della battaglia di Magenta, esultavano e invocavano la
guerra al fianco del Piemonte, nominò presidente del
Consiglio e ministro delle Guerra Carlo Filangieri,
75 anni, figlio dell’immortale giurista Gaetano, in
possesso di un “curriculum vitae” invidiabile:
valorosissimo combattente, già a 17 anni, nell’esercito
napoleonico, ispiratore delle riforme di Ferdinando II
degli anni trenta, aveva domato la rivolta siciliana nel
1849 restandone come Luogotenente fino al 1855, dando
ottima prova di sé anche in campo civile, una figura di
militare e di politico di primissimo livello, conosciuta
e rispettata a livello internazionale. “Vidi tornare a
casa mio padre preoccupato e triste ... gli andai incontro
ed egli mi disse: “…..Quel povero giovane mi ha
domandato aiuto in modo che io non ho potuto
negarglielo…..il Re manca di amici capaci di
salvarlo, di uomini, direi, di spirito moderno, ma di
fede sicura e devota alla monarchia. Ferdinando II ha
purtroppo divorato due generazioni di uomini: è questa
una triste verità che oggi apparisce in tutto il suo
significato, che suona isolamento, abbandono, rovina di
uomini e di cose”
Francesco II diede subito un vigoroso impulso alla
progettazione di nuove opere pubbliche, concernenti
soprattutto l’ampliamento delle linee ferroviarie e dei
porti; i liberali, da parte loro, ricominciavano a
battersi per il ripristino della Costituzione,
caldeggiato anche dalla giovane e bellissima diciottenne
regina Maria Sofia, sorella dell’imperatrice austriaca
Sissi.
|
La regina Maria Sofia |
Il 9 giugno arrivò, a Napoli, Ruggero Gabaleone, conte
di Salmour, un diplomatico inviato da Cavour, il quale
invitò Francesco II a ripristinare la Costituzione,
propose un’alleanza con il Piemonte nella guerra in
corso contro l’Austria che aveva già visto la prima
vittoria francese del 4 giugno a Magenta e parlò anche
di una spartizione dell’Italia con l’inglobamento da
parte delle Due Sicilie delle Marche e dell’Umbria,
territori del Papa. Il diplomatico piemontese era visto
con forte sospetto, per il ruolo di sostegno che il
regno di Sardegna ricopriva con gli esuli meridionali e
per quello avuto da Boncompagni, rappresentante sardo in
Toscana, il quale aveva provocato, il 27 aprile, la
caduta del Granduca Leopoldo e la formazione di un
governo ”provvisorio” a guida piemontese. Tutte le
istanze, espresse da Salmour, furono così respinte per
cui il plenipotenziario piemontese così scriveva al suo
primo ministro: ”Almeno per il momento l’alleanza con
Napoli è impossibile, poiché, vista la situazione
esterna e lo stato dei partiti all’interno, il Re e il
governo si sentono perfettamente rassicurati. Il solo e
unico modo di arrivare al nostro scopo è di agire qui
come nelle altre parti d’Italia, ossia di provocare la
caduta della dinastia e l’acclamazione di Vittorio
Emanuele“.
Del resto, nell’ottobre successivo, quando sia Salmour
che Cavour non erano più al loro posto, il primo si
scusò col secondo di aver fallito la sua missione e
Camillo Benso rispose irritato: ”Come ha potuto, solo
per un momento, uno spirito fine come il tuo, credere
che noi vogliamo che il Re di Napoli conceda
la Costituzione. Quello
che noi vogliamo e che faremo è impadronirci dei suoi
Stati”
[7]
Secondo alcuni storici questa era l’ultima occasione
offerta dalla Storia alla dinastia borbonica per salvare
se stessa e soprattutto il popolo meridionale da una
annessione forzata; essi, infatti, sono convinti che
ripristinando subito la Costituzione
ed alleandosi col Piemonte si sarebbe tolto a
quest’ultimo ogni “pretesto” per l’invasione del Sud del
1860. Questo punto di vista è tutto da dimostrare,
nondimeno c’è da dire che i liberali meridionali
pretendevano che il giovane Francesco ribaltasse
immediatamente, e di 180 gradi, la politica seguita dal
padre dalla cui personalità egli era stato sempre
schiacciato e che era defunto solo da un mese, un po'
troppo per un personaggio del suo calibro.
A questo proposito c’è, però, da rimarcare il fatto che
neanche gli oppositori politici del governo borbonico la
pensavano allo stesso modo tanto è vero che essi, il 4
giugno, avevano stilato due manifesti diversi: gli esuli
erano tutti convinti della necessità di entrare in
guerra a fianco del Piemonte mentre quelli rimasti nelle
Due Sicilie erano più realisti e rimarcavano il fatto
che l’alleanza con regno di Sardegna non solo non era
voluta dal Re [il quale affermava di conoscere solo
l’indipendenza napoletana e di non sapere cosa fosse
l’indipendenza italiana] ma anche e soprattutto dal
popolo meridionale che era insensibile alla “sacra
causa dell’Indipendenza”; esso infatti si sentiva
già pienamente tale e non minacciato in alcun modo
dall’Austria.
Questo realismo fu interpretato, dai propugnatori della
guerra, come codardia e l’irritazione reciproca tra le
varie correnti degli oppositori al regime borbonico
raggiunse toni aspri, gli uni si sentivano parte
integrante delle Due Sicilie e rimarcavano il fatto che
“il Piemonte non potrà dispensarsi dal trattare e
accordarsi con noi se vuole riordinare l’Italia”,
gli altri invece desideravano un “moto esterno” che
annettesse definitivamente il Mezzogiorno al regno
subalpino, sacrificando le tradizioni e le libertà
locali sull’altare dell’Unità d’Italia”.
Per ultimo, ricordiamo che la stessa Inghilterra,
per voce di Elliot, suo ambasciatore a Napoli,
consigliava vivamente il Re alla neutralità; temeva,
infatti, che una probabile vittoria della Francia
sull’Austria, con le Due Sicilie ad essa alleata,
avrebbe fatto inevitabilmente passare lo stato
meridionale nell’orbita di influenza dei temutissimi
francesi, in questo modo essi avrebbero messo una forte
ipoteca sul controllo del Mediterraneo. Elliot, il 6
giugno, aveva consegnato al Re una lettera autografa
della regina Vittoria la quale esortava Francesco II a
mantenere la neutralità e, a garanzia dell’integrità del
regno, mandava nel porto di Napoli una squadra navale
che manifestò a lungo, con salve di cannone e
manifestazioni di giubilo, il ritrovato clima di
amicizia tra i due paesi che erano alleati naturali,
vista la loro forte propensione al commercio marittimo
con, rispettivamente, la prima e la quarta flotta
mercantile del mondo. Alla fine, per tutti questi
motivi, la precedente politica estera isolazionista di
Ferdinando II rimase immutata; Francesco II rimase
immobile proprio quando in Europa erano in pieno
svolgimento le manovre delle potenze grandi e piccole.
Egli decretò, il 16 giugno, un’amnistia politica
limitata solo ai responsabili dei fatti del 1848-49,
furono cancellate dalla lista poliziesca degli
“attendibili“, cioè dei sospetti, quelle persone incluse
per “le politiche turbolenze” dei medesimi anni;
condonava, inoltre, diversi anni di pena per alcuni
reati comuni; nonostante queste misure, lo strapotere
della polizia rimase quasi intatto. Questi provvedimenti
non soddisfecero, per la loro limitatezza e la loro
frequente non applicazione pratica, i rappresentanti
diplomatici francese, inglese e sardo che protestarono
per il fatto che i numerosi arresti politici, effettuati
dopo i fatti del 1848-49, non erano inclusi nel
provvedimento, rimarcavano anche la persistenza
dell’illegale detenzione, dal 1857 e senza processo, di
48 persone, di cui 16 accusate di complicità nel
tentativo di regicidio di Ferdinando II. Filangieri
tentò di ribattere che altri e più ampi provvedimenti di
clemenza si sarebbero succeduti nel tempo e che
bisognava, quindi, avere solo un pò di pazienza; valutò
la lista degli “attendibili” del regno in 180mila
persone invece delle 400mila calcolate dal diplomatico
francese.
Il 7 luglio, si verificò, a Napoli, una rivolta di parte
dei soldati della milizia svizzera, da tempo al soldo
dei sovrani meridionali e fino a quel momento
fedelissima; fu sedata dai loro stessi commilitoni a
prezzo di morti e feriti nelle cui tasche fu trovato il
prezzo del tradimento: monete d’oro che un’indagine
successiva fu appurato essere state distribuite da
agenti sabaudi; tutto il corpo svizzero fu congedato e
rimandato in patria, dietro consiglio del generale
Alessandro Nunziante.
Nel frattempo, la cosiddetta seconda guerra
d’indipendenza (in realtà, principalmente, una vera
e propria guerra franco-austriaca per il predominio
sull’Italia) aveva fatto il suo corso ed ebbe due
principali e cruentissime battaglie svoltesi entrambe
nel giugno 1859: quella di Magenta del 4 e quella
di Solferino del
24.
In esse l’esercito piemontese dette pessima prova di sé:
nella prima si presentò allo scontro quando era
concluso, nella seconda l’episodio “vittorioso” di S.
Martino fu determinato dal fatto che il generale
austriaco Benedek, che in giornata aveva respinto più
volte gli attacchi dei sabaudi, pur avendo a
disposizione la metà dei loro effettivi, ricevette verso
sera l’ordine di ritirata dall’imperatore Francesco
Giuseppe.
Questo scarso contributo delle armate piemontesi deluse
molto l’imperatore francese Napoleone III che capì di
dover condurre la guerra praticamente da solo, il prezzo
di sangue pagato dai francesi era già altissimo, la
Prussia aveva mobilitato e si temeva che entrasse nel
conflitto a fianco dell’Austria. Napoleone III avvertiva
anche l’irritazione dell’Inghilterra che mal sopportava
l’idea che la Francia subentrasse agli Asburgo come
potenza egemone in Italia, temeva che andasse in fumo il
trattato commerciale di libero scambio con gli inglesi,
prossimo alla firma. Infine, e soprattutto, constatava
che Cavour non era stato ai patti sottoscritti a
Plombiers: nei ducati padani e in Toscana egli aveva
provocato, con sommosse provocate ad arte, la fuga dei
regnanti ma non per formare quel progettato stato
dell’Italia Centrale guidato da Gerolamo Bonaparte, lo
scopo, invece, era l’annessione di questi Stati italiani
al Piemonte. Per tutte queste motivazioni l’imperatore
francese mandò, tramite un suo aiutante di campo, una
lettera a Francesco Giuseppe, presente a Verona, e così
si giunse all’armistizio franco-austriaco di
Villafranca, firmato l’11
luglio 1859
senza nemmeno informare Cavour, il quale, dopo una
isterica sfuriata davanti al sovrano in cui dichiarò “Il
vero Re sono io!”, si dimise.
Fu concordata la cessione della Lombardia, eccettuate le
fortezze di Mantova e di Peschiera, alla Francia che la
“girò“ al Piemonte senza che ci fosse un plebiscito per
verificare il consenso dei lombardi. Napoleone III aveva
speso per le necessità di guerra 360 milioni di franchi,
ne chiese solo 60 di rimborso a Vittorio Emanuele, non
ebbe né Nizza né la Savoia e tanto meno il progettato
regno dell’Italia Centrale sotto la guida di Gerolamo
Bonaparte, l’Austria manteneva il controllo sul nord-est
dell’Italia, malgrado la sconfitta militare: un fiasco
politico e finanziario completo. I sovrani austriaco e
francese si impegnavano anche a dar vita ad una
confederazione italiana, sotto la presidenza
onoraria del Papa, alla quale avrebbero aderito i
reintegrati sovrani dei ducati padani e della Toscana,
nonché il Veneto che rimaneva comunque sotto la corona
asburgica. “È innegabile: l’idea di una Confederazione
italiana allarmava i dirigenti delle Due Sicilie…… La
politica di re Francesco II, lo disse lui stesso a
Martini [ambasciatore austriaco], sarebbe stata quella
di temporeggiare. In sostanza il re si rendeva
perfettamente conto che “confederazione” voleva dire
“mutamento” nella politica degli Stati della
Penisola….sarebbe stato un focolaio di rivoluzioni
perchè il Piemonte avrebbe corrotto tutti e tutto”.
Il 26 luglio entrò nel porto di Napoli la nave
ammiraglia della flotta inglese del Mediterraneo che
salutò e fu ricambiata con una doppia salva di cannoni
(a mo’ di saluto), seguita, in soli quattro giorni, da
metà della squadra britannica presente nel “mare
nostrum”: era il suggello al tentativo inglese di
rinsaldare il legame con il Regno delle Due Sicilie, la
cui neutralità aveva appoggiato e garantito nella guerra
appena conclusa.
Ma il primo ministro Carlo Filangieri, dopo alcuni
tentennamenti, esplicitò la sua strategia futura e
tentò di imporre una svolta della politica estera e
interna delle Due Sicilie: per la prima suggerì la
definitiva uscita del Sud d’Italia dall’orbita asburgica
e un avvicinamento alla Francia., per la seconda diede
incarico al giurista Manna di redire il progetto
di una nuova Costituzione che sostituisse quella
“sospesa” da Ferdinando II e che lasciasse al Re gran
parte dei poteri, per evitare si ripetessero i fatti del
15 maggio 1848. Con questi intendimenti egli cercava di
allontanare le nubi che si avvicinavano minacciose al
reame meridionale, il 4 settembre presentò il
progetto della Costituzione a Re, dopo averlo fatto
visionare all’ambasciatore francese Brenier per
l’approvazione di Napoleone III. “Presentai al Re quel
progetto di Statuto, supplicandolo di leggerlo. A tale
mia preghiera Sua Maestà non si degnò far buon viso, né
cedé sottomettere quel manoscritto alla disamina dei
suoi ministri o al parere degli uomini politici nei
quali avesse avuto più fiducia che in me……la poca
accoglienza fatta dal Re a tale mia proposta fu
accompagnata da poche e monche parole”
In seguito a ciò Filangieri si dimise; successivamente
andarono a vuoto altri tentativi del primo ministro di
convincere il sovrano a cambiare idea (alcuni, al
contrario, affermano che anche il primo ministro, in
diverse occasioni, avesse manifestato a Corte delle
grosse perplessità sulla svolta liberale e che il suo
ritiro fu dettato da motivi di opportunismo perché
preconizzava la fine del regno, oppure perché il suo
amor proprio era stato ferito dalla constatazione che il
giovane Re non era facilmente influenzabile dalla sua
persona, già beffardamente soprannominata “Re Carlo” da
Ferdinando II).
Francesco II ricominciò a temere la recrudescenza di
moti liberali e unitari che potessero mettere in
pericolo il suo trono, si cominciava, infatti, a parlare
di uno sbarco in Calabria di rivoltosi provenienti via
mare, con partenza da Genova, guidati da Garibaldi;
non si curò di posizionare le Due Sicilie nel
gioco delle alleanze del nuovo scacchiere internazionale
e la politica isolazionistica di suo padre rimase
immutata.
Il 28 settembre tenne una riunione con i principi
di sangue e i suoi consiglieri, prospettando ad essi la
scelta tra due vie da seguire: semplici miglioramenti
dell’amministrazione oppure apertura liberale a nuove
istituzioni. “Le risposte a noi pervenute sono poche ed
orientate verso la soluzione conservatrice….seguì
un’immediata ondata di arresti…che screditò il governo
non solo di fronte ai sudditi, ma anche di fronte
all’opinione pubblica internazionale.
La cosa non stupì i contemporanei; e meno che mai
Elliot
[l’ambasciatore inglese che cercava, su mandato del
governo inglese, di adoperarsi per porre fine allo
strapotere della polizia nella repressione dei
dissidenti e di favorire una svolta liberale nel paese,
con lo scopo di stringere un’alleanza]. Questi,
conversando con Carafa [ministro degli Esteri delle Due
Sicilie]…sentendo il ministro napoletano parlare di
“partito rivoluzionario”, gli domandò cosa intendesse
con quel termine, e si sentì rispondere che egli,
Carafa, considerava rivoluzionari tutti coloro che
desideravano cambiamenti nelle istituzioni del paese
in senso contrario al parere del governo…Carafa, e con
lui tutto il governo, erano del parere che qualsiasi
mutamento delle istituzioni del paese avrebbe generato
la rivoluzione, e che i loro sforzi , i suoi e dei
colleghi, dovevano essere limitati a tentare di
introdurre qualche miglioramento
nell’amministrazione……quando Elliot aveva accennato alle
persone detenute in carcere nonostante le leggi, Carafa
replicò che “al Sovrano deve essere lasciato un potere
discrezionale di sostituire norme regolamentari quando
giudica di pubblico interesse farlo”. Elliot non potè
trattenersi dal dirgli di aver ascoltato con
rincrescimento i principi che gli erano stati
enunciati.”
Il re meridionale, fermo sulle sue posizioni,
cominciava, pero’, a sentire il peso dell’isolamento
diplomatico:l’Austria lo aveva abbandonato,
l’Inghilterra, dopo aver sostenuto e garantito la
neutralità delle Due Sicilie nella guerra appena
combattuta, gli fece sapere che, dato che egli non
apriva il suo regno a svolte costituzionali, non avrebbe
garantito l’integrità del trono in caso di rivoluzioni
“Il 1 ottobre….Elliot fu ricevuto dal re al quale doveva
consegnare una lettera della regina Vittoria…….lo stesso
governo inglese, a fine mese, dichiarava di arrendersi
per il momento, ma per il futuro prevedeva che sarebbe
giuntogli giorno in cui Napoli non avrebbe avuto alcun
diritto di chieder all’Inghilterra un aiuto eccezionale,
dato che aveva disprezzato tutti i suoi consigli ed i
suoi ammonimenti”.
Si era così persa l’ultima occasione per rinsaldare, con
un’alleanza, il riavvicinamento inglese del 1859, che
sarebbe stato utilissimo ad entrambe le nazioni per
arginare l’influenza della Francia sulla Penisola; al
contrario, le simpatie di Francesco II erano rivolte al
di là delle Alpi ma anche i transalpini chiedevano
riforme in cambio di un appoggio politico. Il re
meridionale si oppose ad ogni apertura politica, sempre
convinto dell’asserzione paterna di “Costituzione eguale
rivoluzione”: questa linea di condotta causò il
completo isolamento delle Due Sicilie
sullo scenario internazionale che fu fatale alla sua sopravvivenza.
Il
10 novembre 1859
fu firmata la pace di Zurigo che prevedeva la
nascita di una Confederazione italiana composta dal
regno di Sardegna “allargato” alla Lombardia, dal regno
delle Due Sicilie, dal Granducato di Toscana, i ducati
di Parma e Piacenza e quello di Modena restituiti ai
legittimi sovrani; tutto questo andava discusso al
Congresso Europeo di Parigi che si doveva tenere il 5
gennaio del 1860.
L’Inghilterra, dal canto suo, cominciò ad elaborare una
nuova strategia:
si rese conto che era diventato impossibile, per la
paladina del liberalismo, continuare a presentarsi come
sostenitrice e garante di un regno, come le Due Sicilie,
il cui sovrano non aveva la minima apertura liberale e
nel quale continua lo strapotere della polizia, in più e
sopratutto, la Confederazione
italiana rischiava di cadere nelle mani della Francia,
uscita vincitrice dal conflitto, per cui cambiò
registro: le Due Sicilie e gli altri stati italiani
dovevano sparire dalla carta geografica per far posto a
uno Stato unitario italiano.
Le motivazioni ideali di facciata , del tipo “gli
italiani devono decidere da soli del loro destino” erano
sbandierate per coprire quelle politiche ed economiche
che erano molto concrete: per le prime, l’Inghilterra
valutò che era più probabile che la formazione di un
Regno d’Italia esteso a tutta la Penisola
avesse la forza di limitare l’influenza francese su di
esso, cosa che un Piemonte “allargato” all’Italia
settentrionale o una semplice confederazione italiana
non potevano garantire; per le seconde, l’abbattimento
delle barriere doganali degli stati italiani preunitari
avrebbe anche creato un nuovo appetibile mercato per la
nazione che teneva in mano i commerci del mondo con la
sua poderosa flotta; quest’ultimo convincimento era, da
anni, nei suoi auspici: «L'Inghilterra non è gelosa
d’alcun impero già esistente; essa è pacifica ed ha
bisogno d'amici, è trafficante ed ha bisogno
d'avventori. Ben vede qual vasto mercato pei suoi
prodotti le fornirebbero 25 milioni d’uomini, abitanti
una contrada prediletta dalla natura e correnti la via
del progresso [l’Italia]. Non ignora che
deplorabili barriere sono poste al commercio dal
moltiplicarsi delle dogane, conseguenza delle divisioni
territoriali, e saluterebbe con gioia un’unificazione
che tutte le togliesse di mezzo. Sa che l'Austria,
signoreggiando in qualche parte d'Italia, non cesserà
mai d'adoprarsi con ogni studio per escludere i prodotti
britannici quasi fossero britanniche idee, affinché i
prodotti austriaci e l'austriaca melensaggine abbiano
campo di penetrare senza competitori e senza ostacoli” .
Per la realizzazione dei suoi progetti, gli occhi di
Londra erano puntati, già da anni, sul Piemonte anche
per mancanza di valide alternative: il regno Lombardo
Veneto era sotto la diretta dominazione austriaca, i
ducati padani e la Toscana sotto la sua tutela, lo Stato
della Chiesa era improponibile per la forte avversione
inglese al cattolicesimo romano, il Regno delle Due
Sicilie era fuori dai giochi politici europei.
Già il
15 giugno 1848,
Lord Palmerston (allora ministro degli Esteri
britannico) scriveva a Re Leopoldo del Belgio: “Io
amerei di vedere tutta l'Italia Settentrionale unita e
un solo reame che comprendesse il Piemonte, Genova,
Lombardia, Venezia, Parma e Modena…una tale sistemazione
per l’Italia settentrionale sarebbe altamente favorevole
alla pace d’Europa con anteporre tra Francia e Austria
uno Stato neutrale forte abbastanza da farsi rispettare
da solo”.
Il Piemonte conseguì questo obiettivo con l’aiuto
francese nella guerra del 1859, ci pensò poi
l’Inghilterra a completare l’opera favorendo la
conquista anche del florido Regno delle Due Sicilie.
E così, nel dicembre 1859, l’ambasciatore inglese a
Torino, Sir James Hudson, a nome del suo governo, chiede
all’aiutante di campo del re Vittorio Emanuele II di far
nominare Cavour inviato ufficiale piemontese all’assise
internazionale di Parigi di prossima convocazione, il
Conte ottenne immediatamente l’incarico. Nello stesso
tempo, Napoleone III, visti falliti i suoi piani di
espansione territoriale tramite la guerra appena
conclusa, per superare lo stallo politico elaborò una
nuova strategia volta a minare il potere temporale
papale e permettere al Piemonte l’annessione delle
Legazioni pontificie (Bologna, Ferrara, Forlì, Ravenna),
in questo modo avrebbe potuto ottenere, in cambio, Nizza
e la Savoia . La sera del 23 dicembre 1859 fu messo in
circolazione, a Parigi, un opuscolo anonimo, “Le Pape et
Le Congrès”, riconosciuto a posteriori come suo
dall’imperatore francese, nel quale si affermava che
l‘esercizio del potere spirituale universale del Papa
mal si conciliava con quelli di un Sovrano se i suoi
possedimenti restavano estesi, meglio che questi ultimi
si limitassero al un piccolo territorio, quale poteva
essere la sola città di Roma, garantito e finanziato
nella sua esistenza dalle potenze cattoliche; in esso il
pontefice potesse esercitare “un potere paterno che
debba rassomigliare piuttosto a una famiglia che a uno
Stato”. Contemporaneamente, nell’opuscolo, si
diffidava esplicitamente il Regno delle Due Sicilie a
prendere le difese del Papa per il mantenimento dei suoi
possedimenti “Napoli, non più che
la Francia
e l’Austria, non può dunque intervenire a Bologna“
[il Piemonte, invece, stranamente sì].
Il ministro della polizia meridionale Aiossa, il 29
dicembre, dirama una circolare a tutti gli Intendenti del Regno autorizzando
”senza la menoma
esitazione ad arrestare chiunque offrisse elementi di colpabilità e anche di semplici sospetti”
Il congresso europeo di Parigi non si tenne e il
14 gennaio 1860
l’Inghilterra inviava una nota, che aveva il sapore di
un ultimatum, alle cancellerie europee diffidando la
Francia e l’Austria ad interferire ulteriormente nella
questione italiana, ufficialmente in nome del
principio di “non intervento”; era il via libera
definitivo per l’espansione territoriale del governo
sabaudo che si sentì coperto alle spalle dalla più forte
superpotenza mondiale oltre che dalla Francia. Non ci
voleva certo un grande genio politico per far capire a
Cavour, ritornato a capo del governo il
21 gennaio 1860,
che la strada delle annessioni era spianata: l’Austria,
dopo la sconfitta militare era impotente, Francia e
Inghilterra lo appoggiavano.
Napoleone III, nel frattempo, aveva già sostituito, l’8
gennaio, il ministro degli Esteri Walewsky, firmatario
degli accordi di Zurigo, con Thouvenel, e il 25 gennaio
concluse con l’Inghilterra il Trattato sul libero
scambio delle merci, ottenendo quindi l’appoggio
incondizionato della classe borghese francese e il
totale accordo tra le due nazioni che comprendeva anche
la fine dei contenziosi che esse avevano su alcune
colonie sparse nei vari continenti.
Il 27 gennaio Cavour inviò alle potenze europee un
messaggio nel quale dichiarava che, sfumata l‘idea del
Congresso ed essendo impossibile la restaurazione dei
sovrani italiani spodestati, egli aveva il “dovere di
fare l’Italia” per evitare che questi stati cadessero
nell’anarchia; questa fu la sua linea di condotta per
tutte le annessioni piemontesi che vennero mascherate,
ufficialmente, come il solo mezzo per arginare la
“rivoluzione” italiana, impedendo rivolgimenti
repubblicani. Negli stati padani, nella Toscana e nelle
legazioni pontificie, dopo che i commissari piemontesi
avevano fatto rientro a Torino in ottemperanza a quanto
previsto dalla pace di Zurigo, i governi provvisori,
sempre ispirati dal regno sabaudo, avevano indetto
elezioni a suffragio ristretto che avevano dato vita ad
assemblea costituenti; queste, nei giorni 11 e 12
marzo organizzarono dei plebisciti per sondare la
volontà popolare all’annessione al Piemonte che si
espresse favorevolmente, anche se il voto contadino fu
pilotato dai proprietari terrieri.
Il 16 marzo apparve sul Times di Londra un
articolo nel quale si affermava che Francesco II “stava
superando il padre in bigotteria e crudeltà. Gli
infelici Napoletani sono passati da Tiberio a Caligola”.
Cavour aveva già riallacciato i rapporti con Napoleone
III e così, il 23 marzo, ci fu il consenso
dell’imperatore all’annessione piemontese della Toscana,
dei ducati padani e delle Legazioni papali, in cambio
ricevette la città di Nizza e la Savoia nonché l’impegno
piemontese ad onorare il rimborso parziale, già
pattuito, delle spese di guerra francesi del 1859; papa
Pio IX lanciò, il 26 marzo, la scomunica “contro tutti
coloro i quali hanno perpetrato la nefanda ribellione
nelle province del Nostro Stato Pontificio, e la loro
usurpazione, occupazione ed invasione … come pure i loro
mandanti, fautori, aiutatori, consiglieri, aderenti”.
Garibaldi, il 12 aprile, protestò alla Camera torinese
contro la cessione della sua città natale (Nizza) ma
Cavour gli rispose che “Quella cessione non esser
isolata, ma fatto della serie dè compiuti, e di quei che
rimangono a compiere”.
L’Inghilterra era stata ingannata dalla proverbiale
doppiezza di Cavour il quale aveva negato ufficialmente
di voler cedere ai transalpini questi possedimenti; il
ministro degli esteri Lord John Russel affermò che il
primo ministro piemontese non era altro che un agente di
Napoleone III “quasi un prefetto francese e che si
doveva formulare l’ipotesi che l’alleanza franco sarda
celasse altri accordi segreti a danno degli interessi
inglesi”
ma, nonostante ciò, il proverbiale pragmatismo
anglosassone prevalse e si proseguì nella politica che
tendeva a favorire la formazione di uno Stato italiano
più grande in funzione antifrancese intimando, però, nel
contempo, al Piemonte di non cedere anche la Sardegna
alla Francia (come si andava progettando).
In conclusione la seconda guerra d’indipendenza, sebbene
il contributo delle truppe sabaude fosse stato scarso,
determinò per vie diplomatiche un grosso allargamento
territoriale del Piemonte; queste modeste qualità
belliche furono poi ribadite, nel 1866, nella terza
guerra d’indipendenza quando il regno d’Italia fu
sconfitto per terra e per mare dall’Austria e riuscì ad
ottenere il Veneto solo grazie ai successi dell’alleata
Prussia; per questi motivi gli Asburgo non cedettero
questa regione direttamente agli italiani ma alla
Francia, che la girò successivamente all’Italia. In
quell’occasione Napoleone III commentò, salacemente, nei
confronti degli italiani:”Ancora una sconfitta e mi
chiederanno Parigi!” e Bismarck “corvi che volano si
campi di battaglia per nutrirsi degli avanzi”; più
caustico Giuseppe Mazzini: ”È possibile che l’Italia
accetti di essere additata in Europa come la sola
nazione che non sappia combattere, la sola che non possa
ricevere il suo se non per beneficio d’armi straniere e
concessioni umilianti dell’usurpatore nemico?“;
nel 1919, alla conferenza di pace di Parigi che seguiva
alla prima guerra mondiale, fu il plenipotenziario
francese Georges Clemenceau a commentare:”Ma che vuole
l’Italia? Aumenti territoriali? Non sapevo che avesse
perso un’altra guerra”.
Dopo i plebisciti e le annessioni si svolsero le
elezioni politiche, stavolta a suffragio ristretto, nel
Piemonte “allargato“ dalle recenti acquisizioni
territoriali: la Lombardia,
la Toscana, gli Stati Padani e l’Emilia Romagna; il
2 aprile si aprirono i lavori alla Camera dei
deputati di Torino (la numerazione della legislatura non
cambiò e fu la settima). Mancavano solo le Due
Sicilie e lo Stato della Chiesa a completare il
quadro dei sei stati, di tradizioni
plurisecolari, che in complessivi venti mesi furono
cancellati dalle carte politiche, la popolazione che li
componeva assommava a 20 milioni di persone contro i 5
del regno di Sardegna.
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clicca sull'immagine per ingrandire |
Medaglia 24 agosto 1861 in Bronzo
diam. 50,7 mm. coniata a Roma per l’esilio del Re Francesco
II di Borbone a Roma (opus: F.Speranza). Al dr./ FRANCISCVS
II.DEI.GRATIA.NEAPOL.ET.SICIL REX Testa del Re a sinistra; in
basso, F.SPERANZA. Al rov./ EDITIS . CAIETAE / BELLICAE.VIRTVTIS
/ EXEMPLIS / ROMAM.DEMIGRAT / MAIOR.IN.ADVERSIS / AN.MDCCCLXI
(Agli alti esempi di valore nella bellica Gaeta, emigrò a Roma,
più grande nelle avversità). (Ricciardi 273. D’Auria 286)
La coniazione di questa medaglia
fu autorizzata il 24 agosto del 1861, a richiesta di Mons.
Nicola Milella, per opera dello Speranza, e per iniziativa di
alcune famiglie nobili di Roma, per le prove di virtù militari e
nobiltà d'animo dimostrate dal Re Francesco II durante l'assedio
di Gaeta.
Visita la pagina de "Il medagliere storico dei Borbone",
Collezione Francesco di Rauso, Caserta |
A Capodanno del 1860 Francesco II e la regina Maria
Sofia erano stati protagonisti della consueta cerimonia
del baciamano al palazzo reale. Il 16 gennaio grande
festa per il compleanno del Re che compiva 24 anni e
varo festoso, a Castellammare di Stabia, della
modernissima fregata a vapore armata “Borbone”, poi le
celebrazioni della settimana santa nella quale il
religiosissimo Francesco II lavò i piedi di una dozzina
di poveri. Tutto sembrava scorrere senza scossoni, come
negli ultimi anni di regno di Ferdinando II, ma, in
realtà, tutto era in movimento.
Già a fine gennaio 1860, tramite il rappresentante
piemontese accreditato a Napoli, Marchese di
Villamarina, Cavour aveva fatto pervenire a Francesco II
un messaggio di Vittorio Emanuele II : «La
Casa Savoia non è mossa da fini ambiziosi o da brama di
signoreggiare l’Italia …lungi dal volere e dal
desiderare che sia turbato alla reale casa di Napoli il
pacifico possesso degli Stati che le appartengono … non
sarebbe migliore salvaguardia dell’indipendenza d’Italia
che il buon accordo fra i due maggiori potentati di essa».
Questo accordo veniva successivamente esplicitato come
una spartizione dell’Italia tra il nuovo regno del Nord,
“allargato” dalle recenti annessioni, e il Regno delle
Due Sicilie “allargato” anch’esso perchè veniva
invitato, con il beneplacito di Napoleone III, ad
entrare con le sue truppe nelle Marche (territorio
papale); in realtà, probabilmente, era un tranello per
dare al Piemonte il pretesto di reagire con una guerra
contro Napoli; comunque sia, Francesco II aborriva
l’idea di sottrarre al pontefice, di cui era
devotissimo, i suoi possedimenti (rispose a Filangieri
“Vuie che dicite mai. Chella è robba d’ ‘o papa!”) e la
cosa cadde nel nulla. Un’analoga proposta di alleanza
venne reiterata in aprile, sotto forma di un mascherato
ultimatum, perchè il Savoia faceva presente che era
l’ultima occasione di aderire, altrimenti sarebbe stato
“troppo tardi”, il re meridionale rifiutò, ma la
malafede di Vittorio Emanuele e del suo primo ministro è
provata dal contemporaneo invio di emissari piemontesi
incaricati di prendere contatto con i rivoluzionari
siciliani che stavano per insorgere di nuovo contro il
governo di Napoli; ad essi si prometteva l’appoggio
piemontese per una futura autonomia dell’isola, pur se
inserita nel costituendo regno d’Italia che sarebbe nato
dopo la cacciata dei Borbone.
Il 16 marzo erano state accolte le dimissioni che Carlo
Filangeri aveva dato da mesi, egli non era riuscito a
convincere il re a farsi promotore di una svolta
costituzionale delle istituzioni meridionali, ad
accettare la proposta di alleanza col Piemonte e a
mettersi nell’orbita francese, gli successe l’ottantenne
siciliano Antonio Statella, principe di Cassaro, nuovo
ministro della Guerra il generale Francesco Antonio
Winspeare, di 82 anni, agli Esteri andò Luigi Carafa,
incapace di qualsiasi iniziativa. In Inghilterra si
affermò che Francesco II era ancora più tirannico del
padre, ma, purtroppo, egli “non poteva seguire né i
consigli di Elliot [l’ambasciatore inglese] né quelli di
nessun altro uomo politico perché era rimasto schiavo di
un mondo nel quale lo aveva collocato la nascita,
l’educazione, la religione da un lato, l’ambiente di
Corte, la struttura dell’esercito e dell’amministrazione
ereditata dal predecessore, dall’altra. La situazione
internazionale, affrontata con cultura, mezzi e uomini
assolutamente inadatti, lo trascinò alla rovina. Egli
pure come suo padre si comportò da sovrano del XVII e
del XVIII secolo in un momento in cui sarebbe stato
necessario avere il coraggio di affrontare questa nuova
realtà”
Il 3 aprile, un mese prima che gli avvenimenti
precipitassero, il fratello del defunto Ferdinando II,
Leopoldo Borbone, Conte di Siracusa, inviava una
lucidissima e preveggente lettera al nipote Francesco
invitandolo ad impostare una politica estera che fosse
più adeguata ai tempi nuovi, in essa scriveva: ”Il
principio della nazionalità italiana, rimasto per secoli
nel campo dell’idea, oggi è disceso vigorosamente in
quello dell’azione. Sconoscere noi soli questo fatto
sarebbe di una cecità delirante, quando vediamo in
Europa altri aiutarlo potentemente, altri accettarlo,
altri subirlo come suprema necessità dei tempi. Il
Piemonte … facendosi iniziatore del novello principio …
oggi usufrutta di questo politico concetto, e respinge
le sue frontiere fino alla bassa valle del Po … la
Francia … sarà sempre mai sollecita a crescer
d’influenza in Italia … l’Inghilterra, che pure
accettando lo sviluppo nazionale d’Italia, dee però
contrapporsi all’influenza francese … nel Mediterraneo …
l’ Austria, dopo le sorti della guerra…sente ad ogni ora
vacillare il mal fermo potere … né occorre che io qui
dica a V.M. dell’interesse che le potenze settentrionali
prendono in questo momento … giovando in fine più che
avversando loro la creazione di un forte Stato nel cuore
d’Europa, guarentigia contro possibili coalizioni
occidentali. In tanto conflitto di politica influenza,
qual è l’interesse vero del popolo di V.M. e di quello
della sua dinastia? Sire!
La Francia
e l’Inghilterra, per neutralizzarsi a vicenda,
riuscirebbero …da scuoter fortemente la quiete del paese
ed i diritti del trono, l’Austria cui manca il potere di
riafferrare la perdute preponderanza e che vorrebbe
rendere solidale il governo di V.M. col suo, più
dell’Inghilterra stessa e della Francia tornerebbe a noi
fatale, avendo a fronte l’avversità nazionale, gli
eserciti di Napoleone III e del Piemonte, la
indifferenza britannica. Quale via dunque rimane a
salvare il paese e la dinastia minacciata da così gravi
pericoli ? Una sola. La politica nazionale che riposando
sopra i veri interessi dello Stato, porta naturalmente
il Reame del Mezzogiorno a collegarsi con quello
dell’Italia superiore…operandosi tra due parti del
medesimo paese, egualmente libere ed indipendenti tra
loro. Anteporremo noi alla politica nazionale uno
sconsigliato isolamento municipale?”
Queste parole rimasero inascoltate. Sfortunatamente lo
stesso personaggio arrivò a un tale disprezzo per la
causa che i suoi natali gli imponevano, da dichiarare di
volere essere salutato “colla bandiera allo stemma
dei Savoia e non col borbonico … si
professa suddito di S.M. Vittorio Emanuele II, solo Re
degno di regnare sull’Italia”. ricevendo
dall’ammiraglio piemontese Persano, a cui aveva rivolto
queste parole, la proposta di “Luogotenenza in Toscana“
a cui egli rispose con un sorriso di compiacenza.
La storiografia ufficiale lascia, comunque, nell'ombra
la mano della nazione che più d’ogni altra intendeva
beneficiare di una nuova realtà politica italiana
indipendente: l'Inghilterra; “Senza l’aiuto di
Palmerston, Napoli sarebbe ancora borbonica, e senza
l’ammiraglio Mundy non avrei giammai potuto passare lo
stretto di Messina“questo dichiarò Garibaldi , in un
discorso tenuto al Crystal Palace, nel corso del suo
viaggio in Inghilterra nell’aprile 1864
.
Giuseppe Ressa
Eugenio Artom, “
Lord Palmerston nella sua vigilia politica“,
riportato da Umberto Pontone in “Due Sicilie”,
luglio 2001
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