Thalassa, thalassa. Il grido si diffonde di bocca in bocca a Palazzo Madama e, come nell'Anabasi di Senofonte, la vista del mare all'orizzonte (leggi: centrodestra) ha il significato di una liberazione dall'angoscia, della «via che porta a casa». Gioia frammista a speranza, all'incognita di quel che verrà. Del centinaio di senatori pentiti e pronti a tornare (l'ultimo censimento di Repubblica, ne contava 97) una ventina di alfaniani costituiscono l'avanguardia. Complice lo sconsiderato annuncio di Angelino, qualche giorno fa, di «aver chiuso con il Pd». «E allora dove andremo, che fine faremo?», l'istantaneo corollario.
Quel che è certo, è che le attese dimissioni del ministro degli Affari regionali, Enrico Costa, ieri sono arrivate (Gentiloni ha assunto l'interim) e si può scommettere che costituiscano la classica crepa nella diga. Il «si salvi chi può». Qualche senatore più avveduto il cammino inverso l'aveva intrapreso già in tempi non sospetti. Per Costa, già in disaccordo sul processo penale, galeotto è stato l'accelerazione dello ius soli, con la fragile barricata messa su all'ultimo momento da Alfano. Quanto fosse fragile, lo si è capito per soprammercato l'altroieri, quando Gentiloni ha fatto valere la differenza delle forze in campo: a settembre, volente o nolente, la fiducia la dovrai votare e quella legge passerà anche con la tua firma, gli ha intimato. Un bel problema, che il ministro Costa ha risolto alla fine con la dignità di un rampollo che vuole dedicarsi all'unione di qualcosa di più grande. «Faccio un passo indietro perché le mie convinzioni vengono prima delle posizioni. A chi mi consiglia di mantenere comodamente il mio ruolo, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, rispondo che non voglio equivoci, né ambiguità. Allungherò la lista, peraltro cortissima, di ministri che si sono dimessi spontaneamente», ha scritto Costa nella lettera di commiato al premier.
Non entrerà in Forza Italia, come spiegato dal coordinatore azzurro Niccolò Ghedini, ma punterà a rafforzare il centrodestra sul territorio con una formazione di centro liberale. A Costa potrebbe toccare appunto il ruolo di coordinare la messe di parlamentari che «premono per tornare a casa», come rivela il capogruppo Paolo Romani, che tra un po' potrebbe essere costretto a distribuire i numerini eliminacode davanti all'ufficio di Palazzo Madama. Se il Misto è un tradizionale «parcheggio», la verdiniana Gal ha i giorni contati e Ap versa ormai in uno stato di encefalogramma piatto. Giusto qualche irriducibile di Alfano (o di Cicchitto) vuole immolarsi col mitra in mano. Ricostruire un'area di centro moderato, collocata con chiarezza dove stanno i Popolari europei: questa è la mission di Costa, così come la descrive uno dei suoi amici, il formigoniano presidente del Consiglio regionale lombardo, Raffaele Cattaneo, che si è subito voluto complimentare per telefono. «È finita l'epoca dei tentennamenti, delle incertezze, delle posizioni di indifferenza», ha raccontato. Temi che l'ormai ex ministro affronta nella sua lettera al premier. «È il momento di lavorare a un programma politico di ampio respiro che riunisca quelle forze liberali che per decenni hanno incarnato aspirazioni, ideali, valori, interessi di milioni di italiani che hanno sempre respinto soluzioni estremistiche e demagogiche», scrive Costa, figlio del celebre Raffaele (per trent'anni deputato del Pli, già vice e poi segretario liberale e infine apprezzatissimo ministro della Sanità nel primo governo Berlusconi). A salutare la «coerenza» del Costa junior, la sua «scelta di rettitudine in un mondo politico nel quale abbondano i poltronari di professione» è il capogruppo alla Camera, Renato Brunetta.
Ma se le dimissioni non minano una stentata sopravvivenza del governo, sia il leghista Salvini che la Meloni (oltre ai grillini) chiedono invece «elezioni subito». La quarta gamba del centrodestra potrebbe creare qualche problemi anche da quelle parti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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