Trentasei anni dopo la posa della prima pietra, l'autostrada Palermo-Messina viene oggi aperta a metà (un solo senso di marcia) dal premier Berlusconi, preceduto da ministri, presidenti, assessori e sottopanza per una prima parziale apertura nel giugno scorso e una seconda parziale apertura ai primi di novembre. Ancora un'altra parziale apertura e col prossimo nastro, il quarto, sarà completata davvero anche la Messina-Palermo. In attesa
di inaugurare i caselli: visto che non ci sono ancora, infatti, le auto e i camion viaggeranno per ora gratis.
Il commissario straordinario Benedetto Dragotta, quando glielo hanno fatto notare, ha allargato le braccia: «Diciamo che è un risarcimento ai siciliani per tutti gli anni che hanno dovuto aspettare».
Anni? Decenni.
La costruzione di quell’ultimo tratto di 42 chilometri dell’arteria che da oggi unisce, sia pure non del tutto, il capoluogo regionale con lo Stretto, è stata infatti segnata da una lentezza così esasperante da ricordare la costruzione della
«Piramide» nel romanzo di Ismail Kaldaré: «L’undicimilatrecentosettantaquattresima pietra fu messa a dimora durante la seconda luna dopo l’eclisse. Fu necessario, per posarla, un po’ più di tempo di quello richiesto dalla precedente, ma essa provocò meno decessi... L’undicimilatrecentosettantacinquesima fu rovinosa per i suoi portatori. Uno dopo l’altro caddero senza ragione i muratori Mumba, Ru, Thutse e nove altri anonimi manovali... L’undicimilatrecentosettantaseiesima pietra...».
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Un tratto dell' autostrada Palermo Messina (Ansa)
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Quando cominciarono a pensare a quella via di collegamento, erano i tempi in cui l’Unità ironizzava sulla costruzione dell’Autosole scrivendo che «le velocità alte e comode» erano «soltanto per redditi più elevati» e che ora «abbiamo l’autostrada, ma non sappiamo a che serve: è evidente l’impegno di spremere l’economia nazionale nella direzione di una motorizzazione individuale forzata, dimenticando che mancano le strade normali in città e nel resto del Paese». Alla guida del governo c’era Fernando Tambroni, ai Lavori pubblici Giuseppe Togni, ai Trasporti Fiorentino Sullo. Giurassico.
E parallelamente a quella autostrada che non voleva saperne di andare avanti, con una media annua di avanzamento dei cantieri che qualcuno ha con pignoleria calcolato in 4 chilometri, 17 metri e 14 centimetri, restavano bloccati i lavori sempre promessi e finanziati e progettati e rinviati della ferrovia Palermo-Messina. Che ancora due anni e mezzo fa, quando deragliò il locomotore del «1932» diretto a Venezia che trainava sette carrozze con 190 passeggeri, era a doppio binario soltanto per 69 chilometri su 232. Saliti oggi, dopo quella tragedia nella quale morirono dieci persone, a 76. Con una accelerazione che, stando ai dati delle Ferrovie, dovrebbe portare a 143 chilometri entro il 2010. Quando forse diventeranno meno umilianti i tempi di percorrenza che qualche sindacalista denuncia da anni:
«Un treno per coprire 232 chilometri impiega 3 ore e 35 minuti, a una media di 64 chilometri orari. Poco più (più, non meno) della velocità del treno a vapore che percorreva la Napoli-Portici nel 1836». Uno scandalo. Che il Corriere della Sera aveva denunciato già nel 1975 scrivendo che sulla Palermo-Messina viaggiava «l’80% dei passeggeri delle ferrovie nell’isola» e «nella quasi totalità» i treni viaggavano «a un solo binario nonostante che si parli dell’urgente necessità di un loro raddoppio da almeno venti anni». Vale a dire dal 1955.
E non si tratta di comfort. Come spiegava tre anni fa Sergio Romano nella recensione al libro «L’incompiuta» di Guido Gentili, uno studio di Pier Luigi Ciocca, vice direttore della Banca d’Italia, e le stime di alcune organizzazioni internazionali hanno dimostrato che «questo deficit di opere pubbliche ha provocato nel corso degli anni Novanta una perdita valutabile in circa 13 punti percentuali del prodotto interno lordo, cioè circa 300.000 miliardi».
Va da sé che in un contesto come questo, in cui il Mezzogiorno paga da decenni un ritardo spaventoso di infrastrutture, con dighe costruite senza le condotte per l’acqua e costate 38 volte più del costo preventivato come quella sul Metramo o aree industriali fantasma come quella di Baragiano dove ogni posto di lavoro è costato tre miliardi e mezzo di vecchie lire, la sospirata apertura della Palermo-Messina va salutata con squilli di tromba e rullo di tamburi. E forse è giusto, come ha detto Pietro Lunardi, non dar troppo fiato alle proteste della sinistra. Che con Pierluigi Bersani accusa Berlusconi di aver «inaugurato finora solo cose fatte dall’Ulivo fino a tagliare dei nastri che avevamo già tagliato noi» e di aver stanziato solo 9 dei 125 miliardi di euro promessi disegnando col pennarello da Bruno Vespa un reticolo di strade e ponti e ferrovie. Da che mondo è mondo è sempre andata così. Magari anche a loro un domani, chissà, toccherà di inaugurare opere avviate dal governo di centrodestra.
E’ vero però che i collaboratotori del premier, prima di farlo brindare solennemente a una inaugurazione, potrebbero avvertirlo se i calici sono già stati usati. Come nel caso del Mose, le dighe mobili di Venezia, per il quale posò tempo fa la prima pietra (di una diga di sassi, opera d’appoggio) sedici anni dopo il trionfante battesimo celebrato da Gianni De Michelis. O della stessa autostrada Palermo-Messina che quest’anno è già alla terza cerimonia.
Aveva cominciato a fine giugno il viceministro
Gianfranco Micciché benedicendo con un codazzo di autorità la posa dell’ultimo «concio» dell’ultimo viadotto: «Siamo qui solennemente riuniti, signori e signore...». Aveva proseguito ai primi di novembre il ministro
Pietro Lunardi (con al seguito ancora Micciché più
Totò Cuffaro e una corte più numerosa di quella che seguì a Cracovia la principessa Bona Sforza che andava in sposa a re Sigismondo) benedicendo la caduta dell’ultimo diaframma della Galleria Piano Paradiso: «Siamo qui solennemente riuniti, signori e signore...». Oggi tocca a lui, il Cavaliere, ma solo per una delle due carreggiate dell’autostrada. Alla quale dovrà poi seguire la seconda. E poi, quando verrà il tempo, perché rinunciare all’inaugurazione dei caselli?
Gian Antonio Stella