iBet uBet web content aggregator. Adding the entire web to your favor.
iBet uBet web content aggregator. Adding the entire web to your favor.



Link to original content: http://www.arsbellica.it/pagine/battaglie_in_sintesi/Gela.html
Battaglia di Gela - Le Grandi Battaglie della Storia - Ars Bellica
Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Gela

405 a.C.

Gli avversari

Dionisio I il Vecchio tiranno di Siracusa

Figlio di Ermocrate, nato a Siracusa intorno al 432 a. C. Compare per la prima volta nella storia quale partigiano di un altro Ermocrate, figlio di Ermone, che, già prima della grande spedizione ateniese in Sicilia, aveva sostenuto una politica di accentramento di tutte le forze greche esistenti in Sicilia. Morto Ermocrate nel 408-7 in un tentativo fallito di tornare con le armi in Siracusa, Dionisio, che in questo tentativo era stato gravemente ferito e che aveva potuto solo a stento evitare una condanna, fu il continuatore della sua opera: e tale fu riconosciuto, quando egli sposò la figlia di Ermocrate. La minaccia impellente non era più, come alcuni anni prima, l'intervento ateniese, ma la rinnovata aggressione dei Cartaginesi, che approfittavano della situazione rovinosa, per i dissensi interni, per lo sperpero di uomini e di denari, lasciata dagli Ateniesi nella Sicilia greca. Questa situazione particolare non faceva del resto che aggravare i mali cronici, a cui aveva tentato di reagire la tirannide di Gelone e di Gerone quasi un secolo prima. Il tenace attaccamento alla propria autonomia impediva a ogni città di legarsi durevolmente con le altre in un saldo blocco che permettesse di contrastare validamente all'omogenea potenza cartaginese e di sottomettere in modo definitivo quegl'indigeni (Sicani, Siculi ecc.), che di per sé innocui diventavano pericolosi, perché infidi, a ogni conflitto. Né poteva avvenire che in regime costituzionale una città si assicurasse una stabile egemonia sulle altre città, perché era essa stessa all'interno indebolita dai conflitti dei partiti, ognuno dei quali si valeva dell'aiuto dei partiti corrispondenti in altre città, quando non ricorreva ai Cartaginesi stessi. L'unico rimedio conosciuto era la tirannide, che sopprimeva con violenza le lotte interne, preponeva a ogni problema il problema militare e quindi era in grado di espandersi e d'imporre con la forza il concentramento delle città greche: era peraltro rimedio, come si capisce, inviso, perché, con lo scopo di salvare la civiltà greca, impediva lo svolgersi di quelle attività che costituivano per i Greci il nucleo stesso della loro civiltà. Ciò spiega l'odio tenace che accompagnò tutta l'opera di Dionisio, fin da quando, poco dopo la morte di Ermocrate, oltrepassò i limiti che questi probabilmente si sarebbe imposto, se la sua impresa fosse stata fortunata, e si avviò risolutamente verso la tirannide: ciò spiega soprattutto la trista fama che rimase nei secoli, per opera soprattutto della tradizione elaborata in Atene o per influenza ateniese, intorno a questo uomo di stato che pure fu il più geniale e instancabile difensore della civiltà greca in Occidente e non fu insensibile nemmeno alle forme più raffinate di questa civiltà, se fu poeta, specialmente tragico.

Gli elementi su cui la tirannide nel mondo greco si poteva fondare erano due: i soldati legati alla fortuna del loro capitano e perciò generalmente mercenari; le classi diseredate che dalla tirannide si aspettavano con ragione un rivolgimento economico, perché la tirannide aveva interesse a deprimere le forze aristocratiche. A entrambi gli elementi Dionisio si rivolse, fin dal 407-6, quando l'occupazione cartaginese di Agrigento sollevò, insieme con i timori, l'indignazione dei Siracusani, che accusarono i loro strateghi di tradimento. Dionisio propose la nomina di nuovi strateghi e fu scelto tra questi, ma riuscì facilmente a liberarsi dei colleghi, accusandoli a sua volta e facendosi nominare solo comandante: poi, per un vero o simulato attentato contro la sua persona, ottenne anche una guardia personale di 600 soldati, naturalmente poi accresciuta, che gli assicurò in modo definitivo la dittatura. Tante concessioni non gli sarebbero venute con facilità l'una dopo l'altra, se egli nello stesso tempo non avesse dimostrato le migliori intenzioni democratiche, soprattutto con un intervento a Gela in favore della democrazia, che lo rese celebre in tutta la Sicilia greca. La nomina di Dionisio non impedì tuttavia che i Cartaginesi continuassero nei loro successi, occupando anche Gela e Camarina, la cui popolazione si rifugiò in massa a Siracusa, perché tutta l'organizzazione militare dei Greci era da ricostituire; né era possibile farlo immediatamente durante una guerra e con l'ostilità del partito aristocratico. Di questa ostilità l'episodio più grave fu, appunto in seguito alla perdita di Gela, la ribellione della cavalleria siracusana formata, come ogni cavalleria, dai giovani aristocratici. Essa nella ritirata si distaccò da Dionisio, si precipitò a Siracusa, facendo strazio dei famigliari e della moglie di Dionisio, e credette di potergli chiudere le porte davanti; ma la fanteria rimasta fedele aiutò Dionisio a rientrare in Siracusa e costrinse i cavalieri a rifugiarsi in Etna. Intanto, approfittando di queste lotte intestine, i Cartaginesi stavano ponendo l'assedio a Siracusa; ma un'epidemia violenta li persuase alla pace. La quale fu conclusa alle condizioni che la parte occidentale della Sicilia con gli Elimi e i Sicani rimanesse ai Cartaginesi: le città greche evacuate e occupate dai Cartaginesi (Gela, Camarina, Selinunte, Agrigento, ecc.) fossero di nuovo consegnate ai Greci, ma con l'obbligo del tributo ai Cartaginesi; Messina e Leontini, insieme con i Siculi, fossero autonome, e Siracusa rimanesse nelle mani di Dionisio esplicitamente riconosciuto dai Cartaginesi (404 a. C.). Era per il momento quanto occorreva a Dionisio, che aveva bisogno di una tregua per riorganizzare l'ordinamento della città e per ricostituire l'esercito e la flotta. In linea teorica Dionisio era solo il generale in capo, non sappiamo se eletto a vita o (il che è meno probabile) continuatamente rieletto; ma poi di fatto, come si capisce, egli poteva dominare a piacere l'assemblea popolare, che ancora rimaneva accanto a lui, sebbene con poteri limitati, perché Dionisio non solo la presiedeva, ma aveva egli solo il diritto di farvi proposte, e tutte le altre magistrature erano designate da lui. In tali condizioni gli fu assai facile di apportare radicali modificazioni alla cittadinanza, spossessando i cavalieri fuorusciti, distribuendo i loro beni fra i suoi partigiani e ammettendo nella cittadinanza con minori diritti schiavi emancipati o forse meglio i servi della gleba ancora rimanenti (i cosiddetti Cilliri). Intanto si fabbricava la roccaforte nell'isola di Ortigia, ostruendo con un muro l'istmo che la congiungeva alla città. Il consolidamento all'interno si poteva dire avvenuto. Poteva allora iniziarsi la riconquista della Sicilia libera dai Cartaginesi; condizione essenziale per poter poi rivolgere queste forze contro i Cartaginesi stessi. Ma l'inizio fu disgraziatissimo. Se l'opposizione politica era fiaccata all'interno, restava forte al di fuori fra i cavalieri asserragliati in Etna, fra gli altri fuorusciti dispersi per la Sicilia e per la Grecia, che erano riusciti a trarre dalla loro parte anche la madrepatria di Siracusa, Corinto. Perciò, quando Dionisio tentò un primo attacco a una cittadina sicula, Erbesso, si vide respinto da un esercito di Siracusani esuli e di Corinzi, i quali lo costrinsero a ritirarsi in Siracusa e lo assediarono. Solo l'aiuto di 1200 mercenarî campani, già al soldo dei Cartaginesi, e le discordie degli avversari permisero a Dionisio di liberarsi dall'assedio. L'esperienza lo persuase quindi a riconciliarsi, per mediazione dei Corinzî, con gli esuli e soprattutto a rinnovare il suo piano di sottomissione della Sicilia. Non più attacchi a città minori, attacchi che lasciavano libere di accorrere in loro aiuto le città maggiori, bensì rapide sorprese su queste città stesse, e non solo per sottometterle, ma per trasformarle in modo che fosse evitato ogni pericolo di ribellione e fosse assicurata la capacità di resistenza contro i futuri attacchi cartaginesi: in altre parole, le città dovevano essere trasformate in colonie militari, mentre la vecchia cittadinanza era dispersa, in parte trasferita a Siracusa, in parte lasciata al suo destino. Così vennero trattate Nasso, Catania, Leontini ecc., instaurando un sistema che fu poi normale per tutto il governo di Dionisio e ricoprì la Sicilia e in seguito la Magna Grecia di una serie di colonie militari, delle quali alcune appositamente fondate, come Adranon presso l'Etna a sorveglianza dei Siculi. In Siracusa fervevano contemporaneamente i preparativi per la lotta contro i Cartaginesi, si fortificava la città e si costruiva una flotta di 200 navi, fra cui molte tretere e pentere, che erano la massima novità tecnica del tempo. Tali preparativi erano concomitanti con una di quelle epidemie, che in quegli anni a periodi intermittenti facevano strage di Cartaginesi, e costituiranno sempre le occasioni più favorevoli per gli attacchi di Dionisio Appunto per questa epidemia Dionisio poté aver mano libera in tutta la Sicilia per un anno intero (398 a. C.), in cui solo alcune delle maggiori colonie fenicie poterono resistere, mentre altre, quale Motia, cadevano, e si faceva in ogni parte una caccia spietata all'elemento semita. Ma l'anno dopo, Imilcone sbarcava con una flotta potente e riconquistava rapidamente tutto il terreno perduto, fino a giungere a sottomettere Messina. Infine si scontrava nelle acque di Catania con la flotta siracusana e la distruggeva in gran parte. Dionisio era costretto a ritirarsi in Siracusa una seconda volta ed era qui assediato. Insieme con l'aiuto spartano e corinzio di 30 triere comandate da Farace, veniva in soccorso dei Siracusani una nuova recrudescenza della peste nel campo cartaginese. Dionisio poteva uscire dalla città e assalire, con pieno successo, l'esercito d'Imilcone. Anche nel resto della Sicilia la resistenza punica era minima, e la rioccupazione di tutta la Sicilia greca insieme con alcune colonie fenicie, quale Solunte, poteva procedere rapidamente: sorgevano nuove colonie militari, tra cui sulla costa settentrionale Tindaride, popolata di Messenî venuti dal Peloponneso.

Ma questo nuovo e difficile trionfo non poteva placare i malcontenti, aggravati dalla situazione economica disastrosa. Mentre alcune delle più fiorenti città greche erano state distrutte e spopolate, creando migliaia di fuggiaschi, le spese militari che la politica di Dionisio comportava erano enormi e imponevano un fiscalismo che avrebbe da solo rovinato un'economia anche florida: oltre ai tributi (evidentemente limitati in caso di guerra) che, come dice Aristotele (Polit. V, 1313, b, 26), assorbivano le intere sostanze in cinque anni, un complicato sistema di dazi, di decime, ecc. sopperiva ai bisogni del bilancio, senza contare le entrate straordinarie (bottino di guerra, spoliazione di templi, confische) e l'alterazione del valore della moneta, a cui Dionisio ricorse più di una volta. Tutti questi malcontenti facevano capo a Reggio, fiera della sua tradizione di libertà, aperta agli esuli politici siracusani e soprattutto nemica ereditaria di Locri, che era strettamente legata con Dionisio: tanto che perfino ci narrano, con discutibile simbolismo, che Dionisio aveva sposato nello stesso giorno una donna di Locri e una di Siracusa. Un'improvvisa aggressione al castello di Mile (Milazzo), preparata da esuli di Nasso e di Catania, ma aiutata da Reggio, provocava l'apertura delle ostilità. Del che naturalmente approfittavano i Cartaginesi, tornando a sbarcare con Magone in Sicilia (393 a. C.). Dopo un vano tentativo contro Reggio, Dionisio stipulava una tregua di un anno con questa città e si rivolgeva contro i Cartaginesi, ma gli ammutinamenti del suo esercito lo costringevano a trattare con i nemici a condizioni per noi abbastanza oscure. È probabile tuttavia che la regione nord-occidentale della Sicilia con gli Elimi e parte dei Sicani fosse riconosciuta ai Cartaginesi. Dopo di ciò Dionisio tornava contro Reggio, a cui s'era unita tutta la lega delle città italiote (Crotone, Caulonia, Sibari, ecc.), infine consapevole che l'intervento di Dionisio nella Magna Grecia significava la sua volontà di sottometterla tutta. Dopo varie vicende, una vittoria presso il fiume Eleporo dava in mano a Dionisio Caulonia e Reggio: i cittadini della prima erano trapiantati a Siracusa; quelli della seconda, già risparmiati, erano poi per insubordinazione fatti schiavi in massa, e la città fu distrutta (386 a. C., l'anno del saccheggio di Roma per parte dei Galli, secondo un celebre sincronismo, capitale nella cronologia antica). Era ormai chiara la posizione politica di Dionisio La sua tirannide si poteva sostenere solo in quanto egli riuscisse a dominare tutta la grecità occidentale: ogni città libera era per necessità sua avversaria e valeva a concentrare intorno a sé tutti i nemici della tirannide, provocando interventi cartaginesi. Ma questo grande stato non poteva giustificarsi se non liberando la grecità da tutti i suoi nemici tradizionali: insieme con i Cartaginesi, gli Etruschi e i pirati (spesso gli Etruschi medesimi), che ne impedivano il dominio del mare e la sicurezza dei commerci. Mentre si veniva preparando la nuova guerra contro i Cartaginesi, che avrebbe dovuto essere definitiva, era iniziata una vasta colonizzazione militare nell'Adriatico, ed erano occupate Lissa, Lesina, Curzola ecc., fondata Ancona, colonizzata Adria, dove sarà inviato pressoché in esilio quale governatore uno dei principali collaboratori di Dionisio, Filisto, quando in un conflitto tra Dionisio e il fratello Leptine, risoltosi poi felicemente, Filisto prese le parti di quest'ultimo. E anche di questo periodo una dimostrazione militare contro gli Etruschi, senza conseguenze rilevanti, se non il grosso bottino con il saccheggio di un tempio presso Pirgi. La potenza di Dionisio, amata da alcuni, odiata dai più, s'imponeva alla stessa Grecia, dove Dionisio non mancava d'intervenire ovunque potesse in favore della sua alleata Sparta; e un suo aiuto di 20 navi durante la guerra corinzia fu uno dei principali motivi che decisero Atene alla pace di Antalcida (387-6). La nuova guerra con Cartagine scoppiò infine nel 383-2 con un duplice attacco cartaginese in Sicilia e nella Magna Grecia. Dopo una grande vittoria siracusana a Cabala (luogo ignoto) con la morte del generale cartaginese Magone, Dionisio credette di poter imporre ai cartaginesi l'abbandono della Sicilia, ma questa condizione fu rifiutata e un ritorno offensivo dei Cartaginesi portò alla loro vittoria a Cronio, dove morì il fratello di Dionisio, Leptine. Si venne quindi alla pace, sfavorevole ai Siracusani. Essi dovettero pagare 1000 talenti, e il confine fu portato al fiume Alico, che lasciava in mano dei Cartaginesi Selinunte e parte del territorio di Agrigento: tale confine rimase poi sino alla conquista romana. Né valse a mutarlo l'ultima guerra che Dionisio ormai vecchio, ma tenacemente fedele al suo ideale, mosse contro i Cartaginesi, approfittando di una nuova pestilenza, nel 368-7, dopo aver adoperato il decennio di relativa pace per proseguire l'occupazione della Magna Grecia, conquistando Crotone, e per aiutare Sparta contro i Tebani, soprattutto dopo la battaglia di Leuttra (370-69), con ciò riconciliandosi per un momento gli Ateniesi, alleati di Sparta, che gli concessero la cittadinanza onoraria, gli premiarono una sua tragedia rappresentata nelle Lenee del 367 e infine conclusero una formale alleanza con lui in quell'anno. È dubbio se quest'alleanza avrebbe dovuto portare in futuro a un'effettiva collaborazione politica tra Dionisio e il blocco anti-tebano non solo nelle cose della Grecia, ma anche nella lotta contro i Cartaginesi. Dionisio, dopo aver liberato Selinunte ed Entella ed aver subito forti perdite navali per una sorpresa nelle acque di Erice, che lo costrinse a una breve tregua, morì nello stesso anno 367 senza aver potuto nulla concludere. Risultato del suo sforzo di quarant'anni era la salvezza della civiltà greca in Sicilia; ma la sua costruzione politica, ripugnante a quella stessa civiltà che voleva difendere, era destinata a crollare rapidamente.


Imilcone II (Cartagine, ... - Cartagine, 396 a.C. o 394 a.C.)

Dopo aver sostituito Annibale Magone al comando delle truppe cartaginesi nella terza campagna siciliana, nel 406 a.C. conquistò Agrigento e nel 405 a.C. Gela e Camarina, costringendo Dionisio I, tiranno di Siracusa, alla pace dopo aver assediato Siracusa. Nel 396 a.C. ritornò in Sicilia (quarta campagna siciliana di Cartagine) dopo che Dionisio I aveva riaperto le ostilità nel 397 a.C. Dopo aver riconquistato le città di Erice e Mozia, distrutta dai Greci l'anno precedente, marciò lungo la costa settentrionale siciliana, espugnò Messina e avanzò verso Siracusa, che pose in assedio. Una pestilenza e un contrattacco di Dionisio I lo costrinsero ad abbandonare l'assedio e tornare a Cartagine con i superstiti. Tornato in patria, si uccise per la vergogna della sconfitta.

Egli fu, nei fatti, uno dei più grandi grande condottieri punici, il massimo dell'età classica, quello che riuscì ad espugnare Agrigento, la più grossa "preda" della storia di Cartagine. Fu il primo a durare in carica dieci anni, dal 406 a.C. circa al 396 a.C. circa. Il suo successore fu Magone II.

La genesi

Il nome di Gela, come parecchi altri di colonie greche della Sicilia (Imera, Selinunte, Agrigento, Camarina, ecc.), è tratto da quello del fiume Gelas presso cui sorgeva (il nome, datogli dagl'indigeni italici Sicani, significa "gelido"); le altre varie spiegazioni antiche e moderne del toponimo sono da considerare errate. La colonia greca fu fondata, secondo Antioco (Thuc., VI, 4), 45 anni dopo Siracusa, e 108 prima di Agrigento, ossia nel 688-7; con questa e altre date vicine risultanti dalla tradizione di Eusebio si accorda la cronologia della più antica ceramica scoperta in Gela. Il capo della spedizione colonizzatrice, Antifemo, sarebbe stato di Lindo di Rodi, accompagnato dai suoi compaesani (di qui il nome di Lindi usato dai Geloi secondo un passo dubbio di Tucidide, VI, 4, 3) e da Cretesi capitanati da Eutimo. Si parla anche di coloni venuti dall'isola di Telos prossima a Rodi (donde il nome di Teline per un avo di Gelone) e dal Peloponneso. Questa pluralità d'origine per i coloni di Gela, che d'altronde sarebbero tutti Dori, è conforme a quanto sappiamo in genere per le colonie greche. Il territorio in cui sorse la città greca era già abitato dagl'indigeni Sicani (nell'estrema parte occidentale della collina di Gela chiamata Capo Soprano e più in là a Monte Lungo, a est del fiume sul colle di Bitalemi, e a nord vi erano stanziamenti fin dall'età eneolitica), e le lotte dei coloni contro di essi dovettero poi durare, nel corso del sec. VII e al principio del VI tanto nell'interno, dove i Geloi si fortificarono con fortezze di confine contro gl'indigeni, quanto lungo la zona costiera a ovest della città, dove più tardi nel 58-79 fu fondata la sottocolonia di Agrigento.

Una notizia (Herodot., VII, 153) ci parla di una sedizione fra Geloi, una parte dei quali si sarebbe ritirata nell'interno, nella località di Mactorio, richiamata poi a Gela da Teline, progenitore di Gelone, coi sacrifici alle dee ctoniche di cui era ierofante. Quale fosse già nel sec. VII l'importanza di Gela risulta dall'avere essa costruito uno dei più antichi tesori a Olimpia. Nel 580-79 i Geloi fondavano Agrigento, valendosi come ecisti di Aristonoo e di Pistilo; la colonia si distaccò dalla madrepatria, fin da Falaride che ne assunse subito la tirannide. Il confine fra le due città fu normalmente al fiume Imera; tra Gela e Camarina fu al fiume Dirillo. Il territorio calcolabile di Gela pare fosse di circa 1100 kmq. Il primo tiranno di Gela, Cleandro, figlio di Pantare olimpionico, regnò sette anni. Ucciso Cleandro dal geloo Sabillo, gli successe per sette anni (498-491, o più probabilmente 492-486-5) il fratello Ippocrate, il quale, valendosi prima come guardia del corpo, poi come ipparco, di Gelone, discendente da Teline, conquistò nel 492-1) Callipoli, Nasso e Leontini; poi vinse all'Eloro i Siracusani ricevendone, in cambio dei prigionieri, Camarina, che fu ripopolata fra il 491 e il 488; infine prese Ergezio e combatté contro i Siculi di Ibla: in questa guerra Ippocrate morì, nel 486 o 485. Morto Ippocrate s'impose ai Geloi come tiranno Gelone, che poco appresso aiutò i Gamori siracusani a tornare in Siracusa, impadronendosene e trapiantandovi la capitale del suo stato. Gela restò suddita di Siracusa, nella quale furono trapiantati, circa il 482, la maggior parte dei Geloi. Durante la potenza dei Dinomenidi le fonti tacciono di Gela, dipendente e sminuita. La floridezza tornò con la caduta dei Dinomenidi nel 466, a cui contribuirono i Geloi. Ad essi toccò Camarina, che ripopolarono nel 461. Nel 456-5 moriva, ed era sepolto a Gela, Eschilo, mentre nel territorio di Gela doveva svolgersi parte delle lotte fra Sicelioti e mercenari dei tiranni. Invano tentata da Atene, Gela aiutò Siracusa contro gli Ateniesi nel 415-414; da Gela si mosse, nel 406, in aiuto di Agrigento assalita dai Cartaginesi, lo spartano Dexippo con 1550 mercenarî, aeguito da altri aiuti; e a Gela trovarono il primo rifugio i fuggiaschi agrigentini, dopo il disastro. Ora Gela attendeva l'attacco cartaginese. Il generale siracusano Dionisio, venuto in soccorso, aiutò il demo a rovesciare i nobili, compensando col denaro confiscato i soldati di Dexippo e i suoi; ma invece di rimanere a Gela tornò a Siracusa, dove fu eletto stratego autocrate.

In Sicilia, Imilcone, nuovo capitano dei Cartaginesi sul principiare di primavera distrusse dal colmo al fondo la città degli Acragantini; e dai templi, che non restarono consumati interamente dal fuoco, levò le scolture, ed ogni più squisito ornamento. Indi con tutte le sue forze andò ad assaltare le campagne di Gela, dal saccheggiamento delle quali, e da quello del territorio de' Camarinesi, raccolse tanta preda, che ne empi' tutto il suo campo: avvicinatosi poi a Gela, pose l'esercito sul fiume del medesimo nome. Aveano gli abitanti di Gela fuor di città una statua d'Apollo, gittata in bronzo, e di mirabil grandezza, la quale i Peni tolsero, e mandarono a Tiro. Que' di Gela l'aveano ivi anticamente eretta in forza dell' oracolo di quel Nume; e i Tirj qualche tempo dopo, in occasione che Alessandro macedone stringeva d'assedio la loro città, ingiuriarono quel simulacro, come se combattesse a favore de' loro nemici. Quando poi Alessandro ebbe presa Tiro, nel giorno dello stesso nome, e nella stessa ora in cui i Cartaginesi in addietro commesso aveano presso Gela un tal sacrilegio, avvenne, siccome riferisce Timeo, che i Greci con pomposissimo apparato di riti e di doni sacrificarono al Nume per benefizio del quale credettero d'avere espugnata quella città. Le quali cose quantunque accadute in diversi tempi, abbiamo creduto non alieno dall' officio nostro l'unir qui insieme, in grazia di un certo chè di miracoloso che presentano. Del resto i Cartaginesi, atterrati qua e là gli alberi della campagna, fortificarono con fosse ed argini il loro accampamento, prevedendo, che Dionigi sarebbe accorso con grandi forze in ajuto degli assediati. Que' di Gela sul principio dell' assedio, stante il grave pericolo imminente, aveano stabilito di mandare a Siracusa i loro figliuoli e le mogli; ma queste essendosi tratte agli altari nel foro, pregando e dichiarando di voler essere a parte coi loro mariti d'ogni buona o cattiva fortuna, ebbero la permissione di rimanere. Dopo di che i cittadini distribuiti in parecchi ordini, a mano a mano mandavano alla campagna alcune partite di soldati, i quali essendo pratici de' luoghi assaltavano opportunamente i nemici qua e là dispersi, ed ogni giorno ne conducevano molti prigioni in città, e non pochi eziandio ne uccidevano. E venuti poi i Cartaginesi ad assaltare da una parte la città, e mettendosi a diroccarne le mura cogli arieti; essi valorosamente li ribattevano, e nella notte restauravano le opere, che nella giornata i nemici aveano guaste, occupandosi in ciò, donne e ragazzi; mentre quanti per l'età aveano vigore e robustezza, stavano continuamente in armi, e combattevano l'inimico: tutto il resto della bisogna facendosi con grande zelo dalla moltitudine. E con tanto spirito e valore resistevasi all'impeto degli assedianti, che quantunque la città non fosse fortificata, e non s'avesse alcun ajuto degli alleati, ed anzi le mura fossero già in parecchi tratti aperte, il timore del pericolo presente non avviliva que' prodi.

Frattanto Dionigi, signore di Siracusa, fa venire dall'Italia gli ajuti de'Greci, chiama le soldatesche de'socj, e fa leva in Siracusa di quasi tutti quelli ch'erano atti alle armi; e a tutte codeste forze aggiunge ancora un corpo di soldati mercenarj. Alcuni dicono, che l'esercito che allora egli mise insieme, era di cinquantamila fanti, e di mille cavalli; Timeo però restringe i fanti a trentamila. Egli inoltre mise all'ordine cinquanta navi. Con queste forze adunque si mosse in soccorso di Gela: ove giunto s'accampò vicino al mare, con ciò volendo, che le sue truppe non si distraessero, ma che dando addosso al nemico si potesse combattere per mare e per terra. E intanto incominciò a fare, che i soldati armati alla leggiera, scorrendo all'intorno, ed azzuffandosi col nemico, gìa' impedissero il foraggiare; e che coll'ajuto della cavalleria, e delle navi s'impedisse ogni convoglio di viveri che venisse da Cartagine. Erano venti giorni, dacché le cose stavano in questi termini, senza che si fosse fatta cosa alcuna d' importanza, quando Dionigi, diviso in tre parti il suo esercito, una squadra ne diede ai Siculi, ai quali ordinò, che passati a sinistra oltre la città, ivi attaccassero la trincea de' nemici; l'altra, composta degli ajuti de' socj, fece andare al lido, lasciata la città alla destra; ed egli col corpo dei mercenarj attraverso della città si portò al luogo, in cui erano piantate le macchine de' Cartaginesi. Avea poi ordinato alla cavalleria, che al primo vedere spiegarsi gli stendardi delle truppe a piedi, passato il fiume, avesse a stendersi per le campagne; e quando vedesse i suoi superiori, corresse a prender parte nella battaglia; e se li vedesse inferiori, li proteggesse. Ed a quelli dell' armata avea prescritto, che subito che vedessero gl'Itali farsi innanzi, avessero ad accostare le navi agli accampamenti nemici.

La battaglia

Mentre ognuno eseguisce questi ordini, i Cartaginesi accorrendo specialmente a quella parte nella quale verso il lido il loro campo non era fortificato, si fanno solleciti di difenderlo, e d'impedire lo sbarco al nemico. In quello stesso momento gl'Itali, avendo già scorso tutto lo spazio fra il mare, e l'accampamento de' Peni, entrano in questo; e vi fanno man bassa, avendo trovato che la più parte della gente era ita a tener lontano le navi: ond'è, che volti in fuga quelli che doveano ivi far difesa, poterono entrare negli steccati. Presto però ritornarono a quella volta i Cartaginesi colla massima parte dell'esercito; ed a stento dopo lungo combattimento cacciarono quello squadrone, che era già passato oltre il fosso: e gl'Itali obbligati a dar luogo a tanta moltitudine de' Barbari si ritrassero in una certa angusta estremità de' trinceramenti, aspettando d'essere soccorsi dai loro. I Siculi, avendo avuto a fare una troppo lunga strada per la campagna, non potevano trovarsi presto a quel luogo; e i soldati mercenarj di Dionigi, dovendo perdere tempo nello scorrere pei vicoli della città, non potevano giungere solleciti quanto volevano. Que' di Gela invero, come più vicini, erano usciti fuori per ajutare gl'Itali in quel luogo precipitoso, in cui s'eran posti; ma temendo, che intanto le mura venissero a mancare del debito presidio, sospesero la loro corsa a quella parte. Da ciò venne, che gl'Iberi, e i Campani, ausiliari de' Cartaginesi, dando aspramente addosso ai Greci d'Italia, ne ammazzarono più di mille: perchè però quelli, che erano sulle navi colle saette e dardi li tenevan lontani, gli altri poterono ripararsi entro le mura della città. Da altra parte intanto i Siculi abbaruffati coi Peni, combatterono con tanto valore, che fecero d'essi non mediocre strage, e gli altri inseguirono sino agli accampamenti; ma come poi Iberi, Campani, e Cartaginesi si avanzarono a sostenere gli Africani, perduti mille de' loro, si ritirarono in città anch'essi; e così fece la cavalleria, quando vide i suoi soccombere, massimamente che da ogni parte era investita dai nemici; e in città parimente si ritirò Dionigi, poichè seppe, che i suoi erano stati messi in fuga.

Le conseguenze

Ivi radunati gli amici si pose a consultare intorno al modo di tirare innanzi la guerra; ma non parendo quel luogo troppo a proposito per trattare di sì importanti cose a cagione de'nemici, coi quali bisognava ad ogni momento essere alle mani, verso sera egli spedi' araldi per una tregua, onde seppellire i morti: poi sulla prima vigilia della notte mandò fuori della città la turba; e verso mezzanotte, con grande prestezza, fece uscirne l'esercito, lasciando dentro da duemila soldati di armatura greve, a' quali fu ordinato, che tenendo per tutta la notte accesa grande quantità di fuochi, e facendo molto clamore, dessero così ad intendere al nemico , ch'egli rimanesse ivi. Costoro sul primo albeggiare del mattino a marcia sforzata andarono poi a raggiungere l'esercito di Dionigi; ed accortisi i Cartaginesi dell'inganno introdussero nella città le loro truppe, e fecero bottino di quanto nelle case era rimasto. Dionigi intanto giunto a Camarina, obbligò gli abitanti di quella città a trasferirsi colle donne e i figli a Siracusa; e perchè la paura non permetteva dilazione, parte d'essi insaccò l'argento e l'oro, ch'eran facili a trasportare; parte senza badare alla roba, non pensò che a fuggire co' genitori e co' figli di tenera età; e alcuni gravi per vecchiezza, o malattia, furono dai parenti e dagli amici abbandonati: parendo a tutti, che i Cartaginesi ad ogni momento fossero loro addosso. Perciocchè la ruina di Selinunte, d' Imera, e d'Agrigento, avea gettato negli animi di tutti tanto spasimo, che ognuno nella immaginazione sua non vedeva più che l'atroce crudeltà di que' Barbari, e il non perdonare a nissun prigioniero, il non sentir pietà di nessun infelice, il mettere in croce gli uni, il tormentar gli altri con insopportabili con tumelìe, ed ogni più misera calamità simile.