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INCHIESTA Lo scandalo Enimont dietro il traffico di rifiuti tra nord e sud? - AgoraVox Italia

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  INCHIESTA    Lo scandalo Enimont dietro il traffico di rifiuti tra nord e sud?

Conosciuta come la "madre di tutte le tangenti", la vicenda legata a Raul Gardini ed all'Enimont contribuì al crollo della “Prima Repubblica” e potrebbe aver avuto dei risvolti oscuri non del tutto indagati a fondo. Compreso il ruolo di Gladio.

Quando si abbattè la tempesta mediatico-giudiziaria di “Tangentopoli” che scosse fin dalle fondamenta il mondo politico, industriale e finanziario italiano, alla fine degli anni ’80, le classi di potere del Belpaese stavano facendo i conti, per la prima volta, con la necessità di ridurre la sovranità dello Stato nell’economia, la messa in discussione dell'allocazione delle risorse pubbliche, la necessità di inasprire la pressione fiscale per contenere il debito pubblico e con l’adeguamento delle norme italiane alle direttive ed ai regolamenti europei approvati a partire dal Consiglio d’Europa di Milano del 28 e 29 giugno 1985, nel quale venne decisa la road map franco-tedesca per emendare, di lì a poco, il trattato europeo. Il ritorno dei venti di guerra, con il conflitto in Iraq del 1991, e la fine dei regimi socialisti dell’est Europa, con l'esplosione dei nazionalismi che di lì a poco portarono alla guerra civile in Jugoslavia, accelerarono i tempi per l'approvazione degli accordi di Maastricht del 1992, con i quali venne chiuso un intero capitolo della storia politica europea nata dalla guerra fredda.

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Una fase storica complessa, soprattutto in Italia, che ebbe il suo climax nell’ultima legislatura della cosiddetta “Prima Repubblica” (1987-1992) durante la quale, mentre i partiti tradizionali vedevano erodersi progressivamente il loro consenso, le istituzioni dello Stato vacillavano sotto i riflettori accesi dalle inchieste giudiziarie, fronteggiando nello stesso tempo la grave offensiva stragista di Cosa Nostra. Persino dal vertice dello Stato, il presidente della repubblica, Francesco Cossiga, si esibiva nell’inedito ruolo di “picconatore” della Costituzione. Un “gioco al massacro” che portò in pochi anni ad una atmosfera di cupio dissolvi della repubblica e che ebbe il suo apice nel 1990, con l’ammissione da parte del governo dell’esistenza di Gladio, con il ritrovamento di una parte delle fotocopie del memoriale di Aldo Moro, e con le dichiarazioni di un ex agente della CIA, Richard Brenneke, relative al ruolo svolto dagli americani nel finanziamento delle organizzazioni terroristiche e sulle responsabilità della P2 nell’omicidio del premier svedese Olof Palme.

In una stagione sicuramente tra le più incandescenti della repubblica, le imprese pubbliche e le banche, centri nevralgici dell'economia mista con la quale si era creata la ricomposizione tra “popolo e Stato” dopo il secondo dopoguerra, erano il vero punto dolente di un labirinto di poteri corporativi intrecciatisi tra i partiti e lo Stato, il freno alle necessità di una ristrutturazione industriale, nonché di una radicale riformulazione del modello di relazioni socio-economiche e degli accordi tra “boiardi di Stato”, garantiti fino allora dalla funzione strategica che era stata assunta dal Ministero delle Partecipazioni Statali.

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La ristrutturazione e unificazione delle società pubbliche con i privati, che procedeva dalle direttive che avevano seguito l’entrata in vigore dell’Atto Unico Europeo, imponevano le fusioni principalmente nei settori delle telecomunicazioni, in quello bancario ed investirono in pieno il settore della chimica di base, dove la Montedison e l'Eni erano tra le più importanti aziende mondiali. Le due grandi istituzioni pubbliche che negli anni '80 avevano dato il via alle privatizzazioni, l'Iri guidata da Romano Prodi, e l'Eni guidata da Franco Reviglio, dovettero così intervenire in un campo di battaglia che rendeva necessaria la defenestrazione di una parte della classe dei dirigenti di nomina politica, la quale avvenne sotto l'egida di Giulio Andreotti, vero e proprio “principe delle tenebre” della Repubblica.

Venne alla luce così una nuova classe di affaristi rampanti, una cricca contraddistinta, più che dall’ideologia liberale, dall'approccio anti-privatistico che reiterava l'intervento politico, e da una filosofia disinvolta del deficit pubblico, che puntava a rinforzare le correnti politiche dei capibastone della DC e dei partiti del sistema politico disponibili a sponsorizzare le loro operazioni, come il PSI di Bettino Craxi, diventato nella seconda metà degli anni ’80 una figura centrale negli equilibri del sistema parlamentare.

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La X legislatura (1987-1992), iniziata con il breve governo Goria, fu caratterizzata dal “condominio doroteo” all’interno della DC, e dalla staffetta che portò alla ribalta politica nazionale l’avellinese Ciriaco De Mita, presidente del Consiglio fino al 22 luglio 1989, ed alla consacrazione di Antonio Gava, divenuto ministro dell’Interno tra lo stupore generale. Gava poi inciampò nell’ottobre del 1990 nel rinvio a giudizio per il caso del sequestro Cirillo, mentre Ciriaco De Mita finì coinvolto con i suoi familiari nell'Irpiniagate. A terminare la legislatura fu Giulio Andreotti nei cui governi si affacciarono per una breve e drammatica stagione politica anche i napoletani Francesco De Lorenzo (PLI, Ministro della Sanità), e Vincenzo Scotti (DC, Ministro dell’Interno).

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L’ultima legislatura della prima repubblica fu funestata dalle inchieste del pool Mani Pulite della Procura di Milano. Il clima da “ultimi giorni di Pompei”, il tentativo di contenimento delle inchieste del pool "Mani Pulite", è descritto efficacemente da uno dei protagonisti di quelle vicende giudiziarie, Luigi Bisignani, faccendiere e giornalista da sempre vicino a Giulio Andreotti ed agli ambienti vaticani, nel suo recente libro intervista “L’uomo che sussurra ai potenti” (ed. Chiarelettere). Bisignani descrive il ruolo svolto da Enrico Cuccia, attraverso il “salotto” di Mediobanca, per salvare il salvabile dei poteri forti. La strategia, condotta da Cesare Romiti, puntava a delegittimare le inchieste della magistratura attraverso un rigido controllo dell’informazione e fu elaborata in una riunione che si tenne in presenza di Giampiero Maranghi, amministratore delegato di Mediobanca, di Carlo De BenedettiGianni Agnelli, Leopoldo Pirelli, Marco Tronchetti Provera, Giampiero Pesenti e CS per il gruppo Ferruzzi. A guastare la controffensiva degli industriali però fu proprio Silvio Berlusconi, che imbracciò le armi del giustizialismo, schierando tutto il suo apparato mediatico per raccontare giorno per giorno l’andamento delle inchieste, con collegamenti in diretta dal Tribunale di Milano, sulle ultime indiscrezioni relative all’iscrizione di personalità del mondo politico, industriale e finanziario sul registro degli indagati della procura, mentre Lega Nord e fascisti soffiavano sul fuoco della propaganda politica. (Luigi Bisignani, Op. Cit., pag.121-122)

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Il fronte degli industriali cominciò a cedere quando le indagini lambirono il gruppo Agnelli, con le prime ammissioni di Antonio Mosconi, un dirigente aziendale di seconda fila, che spinsero Romiti ad una visita-confessione dal cardinale Martini, ripresa con grande enfasi dal Corriere della Sera, e con la consegna di un memoriale al capo della procura di Milano, Borrelli. Il prosieguo delle indagini sull’Enimont ebbe dei risvolti drammatici, con arresti eccellenti e spettacolari, il suicidio in carcere del presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari, la morte di Raul Gardini, la fine misteriosa di Sergio Castellari fino alla scomparsa dei partiti di potere della repubblica.

L’affaire Enimont

Il tentativo di creazione di una multinazionale della chimica e degli idrocarburi, fondendo le rispettive aziende dei settori chimici della Montedison e dell'Eni, durò appena due anni, tra il 1988 ed il 1990, e può ben rappresentare una delle questioni paradigmatiche delle relazioni industriali del capitalismo all’italiana di quegli anni e delle tensioni che agitavano la politica.

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La Montedison, dal 1987, era controllata con una quota di maggioranza del 40% dei titoli dal gruppo Ferruzzi, guidato dal “corsaro” di Ravenna, Raul Gardini. La maggioranza azionaria era stata ottenuta tramite il rastrellamento dei titoli in borsa. L'operazione fu gestita dalla Sige del gruppo Imi, di cui era amministratore delegato Gianmario Roveraro, un banchiere con legami molto forti con l'Opus Dei, e fu consentita dall’euforia determinata dagli appena nati fondi comuni d’investimento, nonché grazie alla fuoriuscita dei vecchi soci del “consorzio” creato da Mediobanca per gestire la riprivatizzazione della Montedison effettuata nel 1981, tra i quali Agnelli, Pirelli, Orlando e Bonomi, i quali non avevano condiviso la scelta di Mario Schimberni di acquisire il gruppo Fondiaria. Tra i nuovi soci della Montedison fecero così ingresso azionisti più spregiudicati, come Gianni Varasi, detto “l’uomo delle vernici”, legato al finanziere Francesco Micheli, Fabio Inghirami (abbigliamento) e la Maltauro Costruzioni, con Sergio Cragnotti nominato da Gardini amministratore delle attività finanziarie della Montedison.

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Serafino Ferruzzi

La società creata da Serafino Ferruzzi, si trovò così alla guida del principale polo chimico privato italiano (300 aziende e 52.000 dipendenti) con una storia industriale che la vedeva attiva principalmente nel settore agroalimentare, e che in seguito alla morte del fondatore per un incidente aereo, nel 1979, era stata affidata dalla famiglia Ferruzzi a Raul Gardini, marito di una delle figlie dell'ex patron del gruppo. Un retroscena della vicenda che ha portato Gardini alla Montedison è raccontato da Bisignani (pag. 128, op. cit.) nell'episodio della benedizione richiesta a Giulio Andreotti, che alla fine fu convinto dalla sua visione strategica. Gli interessi di Raul Gardini spaziavano dall’agroindustria ai biocarburanti, fino alle strategie di penetrazione nel mondo industriale dell’Est Europa, grazie ai rapporti coltivati dal manager ravennate con Gorbaciov, all’epoca Presidente dell’Unione Sovietica, principale aquirente di soia dalla Ferruzzi, nel quale il gruppo aveva ottenuto una importante commessa per la riconversione delle aziende agricole della regione di Stavropol.

La joint-venture Enimont però s’infranse, dopo appena due anni, nella zona grigia che tradizionalmente ruotava intorno all’Eni, uno dei baricentri del sistema politico e finanziario italiano, portando ad una tragica fine i suoi protagonisti principali e a strascichi giudiziari che finirono per compromettere tutte le segreterie dei partiti di potere.

Il drammatico fallimento della fusione venne spiegato da Raul Gardini stesso in una lettera pubblicata su La Repubblica, il 16 Marzo 1990, in cui le colpe venivano attribuite all’Eni, la quale non avrebbe adempiuto pienamente agli impegni presi all’atto della stipula della convenzione, trattando l’Enimont come se fosse una sua controllata, come una variante dell’Enichem.

L’operazione di fusione dei due colossi prevedeva che ad ogni gruppo spettasse il 40% delle azioni, il restante 20% dei titoli invece andava collocato sul mercato. Raul Gardini, in poche settimane, riuscì a rastrellare l’11% dei titoli, tramite Gianni Varasi e Jean Marc Vernes, raggiungendo così la maggioranza del 51% delle azioni di Enimont, con le quali Gardini puntava ad avere il controllo del nuovo mostro della chimica e degli idrocarburi. L’acquisizione dei titoli fu ottenuta con spregiudicatezza, come raccontato da Luigi Bisignani, utilizzando all’insaputa degli eredi di Serafino Ferruzzi il tesoretto del fondo della famiglia Ferruzzi, gestito dal contabile occulto Pino Berlini e da Gardini stesso (pag. 129 Op. Cit.).

Lo scontro che portò al fallimento della joint-venture, come lo stesso Gardini scrisse nella lettera pubblicata da Repubblica, riguardò il ruolo del Ministero delle Partecipazioni Statali, che trattò l’intera operazione Enimont come se il risparmio raccolto in borsa fosse stato semplicemente un “fondo di dotazione erogato a perdere dallo Stato”, come se Enimont fosse stata una società quasi pubblica, nonostante il 60% dei titoli fossero “in mano a privati”, cioè a Raul Gardini. Pesanti strascichi poi emergevano sul piano finanziario:

“…le ristrutturazioni industriali, riconosciute come necessarie sia dal Cipe sia dalle parti sociali, non sono state iniziate. Si è inoltre scoperto che gli investimenti previsti nel business plan in 4.500 miliardi per il triennio 1989-1991, finalizzati soprattutto ad una strategia selettiva di ristrutturazione e rilancio del complesso aziendale, erano stati in gran parte già impegnati, prima della confluenza dell' Enichem nella Enimont, per continuare a realizzare una strategia industriale sostanzialmente invariante. E ciò per una cifra di circa 2.500 miliardi. L' Enichem confluita nell' Enimont aveva, in specie, code di pagamenti, di circa 2.500 miliardi, da effettuarsi a fronte di investimenti deliberati dall' Enichem/Anic, anche immediatamente prima della creazione dell' Enimont. Conseguentemente, gli esborsi effettuati e da effettuare per investimenti da parte dell' Enimont hanno avuto un impatto finanziario non previsto sull' indebitamento.”

Una delle condizioni che Raul Gardini richiedeva al mondo politico, per il successo dell’operazione Enimont, era relativa alla concessione degli sgravi fiscali promessi dal governo di Ciriaco De Mita sulle plusvalenze dovute alla valutazione reale degli impianti. E’ sempre Bisignani a raccontare che Gardini si rivolse successivamente ad Andreotti, in un colloquio al termine del quale il manager disse “Presidente se quei mille miliardi di sgravi fiscali non me li dà mi rivolgo in Francia dove ho credito illimitato.” (pag. 128 Op. Cit.). Gli sgravi non furono concessi e Gardini sarebbe stato di conseguenza costretto a mettere le mani sui fondi della famiglia Ferruzzi, gestiti da Pino Berlini, il quale aveva già occultato il buco di 450 milioni di dollari seguito alla causa contro il Chicago Board of Trade (la borsa di Chicago).

La guerra di Gardini contro l’Impero americano

L’11 luglio del 1989 la Ferruzzi USA Inc., con uffici e aziende in Louisiana, finì nei guai a seguito di un esposto presentato dalle due principali concorrenti americane, la Cargill e la Archer Daniel Midland, che causò la smobilitazione dei contratti a termine della Ferruzzi USA dal mercato di Chicago. Gardini, in previsione di una stagione eccezionale di siccità, aveva rastrellato una quantità enorme di semi di soia stoccandoli nei silos con l’obiettivo di farne alzare il prezzo, creando così una situazione di vantaggio sul mercato finalizzata a costringere i concorrenti a rivolgersi alla Ferruzzi per avere le sementi. L’azione però non riuscì e suscitò la reazione delle due potenti multinazionali americane che non erano affatto intenzionate a consentirgli di diventare il re della soia negli USA, sfruttando delle semplici manipolazioni del mercato. 

La Ferruzzi, all’epoca leader della soia in Europa, aveva acquistato la Central Soya Co. e puntava ad un ruolo significativo nel mercato americano, oltre che a rafforzare la posizione che aveva acquisito nell’esportazione di semi energetici in Cina ed in Russia. La guerra della soia si concluse nel 1993, dopo una serie di vicissitudini, comprese operazioni segrete e sabotaggi, con la sospensione a tempo indeterminato della Ferruzzi, il pagamento di una multa di circa tre miliardi di lire e la perdita di almeno 450 milioni di dollari (660 miliardi di lire dell’epoca), nonostante l’inconsistenza delle accuse di trust alla Ferruzzi, il cui vantaggio economico dell’operazione era stato vanificato dai traders della borsa di Chicago che anziché far salire il prezzo della soia, lo avevano fatto scendere paradossalmente del 50%.

Quando la Montedison uscì dalla joint venture Enimont, l’ENI fu autorizzata dal Ministero delle Partecipazioni Statali a pagare 2.800 miliardi di lire per rilevare il 40% delle quote e le aziende della chimica di base ed intermedi della Montedison, che rimasero tutte all’ENI, tra queste aziende della chimica secondaria, dell’Agricoltura della detergenza, della produzione di materie plastiche, e le raffinerie, come la Montedipe e controllate, l’Auschem, l’ACNA, la Vinavil, l’Ausim, la Montefibre, etc.

La maledizione dell’Eni…

Nel 1991 si consumò improvvisamente il divorzio tra Raul Gardini e la famiglia Ferruzzi, che lo sostituì con Arturo Ferruzzi in Ferfin, e con CS in Montedison, in seguito alla scoperta dell’utilizzo illecito del fondo di famiglia, ed al sospetto che Gardini avesse creato dei fondi neri all’insaputa dei soci della Ferfin e dei fratelli Arturo, Franca ed Alessandra Ferruzzi. Gardini uscì di scena con una liquidazione di 505 miliardi di lire, che pesarono non poco in quello che rimaneva della società di famiglia. In seguito l’esposizione del gruppo Ferruzzi risultò ammontare a 31.000 miliardi di lire lordi (anche se la cifra reale sembrerebbe essere stata intorno ai 22.000 miliardi reali). Nel piano di ristrutturazione presentato da CS, nel 1993, ai 10.176 miliardi di esposizione della Ferfim, metà dei quali in valuta estera (la lira nel frattempo, nel 1992, la lira si era svalutata pesantemente sotto gli attacchi speculativi di Soros, uscendo temporaneamente dallo SME), si aggiungevano quelli della Serafino Ferruzzi, la cassaforte di famiglia e quelli della Fondiaria, che non vennero consolidati dalla Ferfin. La cifra complessiva dei debiti andava ben oltre i 20.000 miliardi di lire.

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Enrico Cuccia

Nel libro intervista di Bisignani sono descritti i momenti drammatici della Ferruzzi, con Arturo Ferruzzi costretto da Maurizio Romiti ad operare per il salvataggio del gruppo, dopo aver firmato una lettera di dimissioni in bianco. La Ferruzzi, secondo il faccendiere Bisignani, avrebbe potuto ripianare il debito con la vendita del settore chimico, della Fondiaria assicurazioni e della Calcestruzzi, concentrandosi sull’energia, fondendo Edison e la società della famiglia Ferruzzi, facendo diventare Eridania la holding di tutto il gruppo, mantenendo il tradizionale business dell’agricoltura e dell’allevamento, con interessi sparsi in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Argentina. A mettere il bastone tra le ruote a questa opzione, su cui la Goldman Sachs, con Costamagna e Romano Prodi (che ne era consigliere), era disponibile a fare da garante, fu Mediobanca, che, con Geronzi, su imbeccata di Gianni Agnelli, impose il proprio piano di ristrutturazione. L’operazione di smembramento fu condotta da Mediobanca imponendo agli amministratori delegati delle tre banche di interesse nazionale del gruppo, Comit, Credito Italiano e Banca di Roma, di chiudere i conti del gruppo e di rientrare entro ventiquattrore di tutti gli affidamenti. Un vero e proprio golpe di fronte al quale la Banca Centrale se ne lavò le mani, costringendo la famiglia Ferruzzi a firmare la resa, mentre Cuccia, con la complicità di Romiti, affidò lo smembramento del gruppo ad un manager di sua fiducia, Enrico Bondi.

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Mentre a Ravenna si piangeva la fine di una saga industriale, a suonare la campana a morto di Raul Gardini fu un informatissimo articolo pubblicato il 7 luglio sul Corriere della Sera, appena due settimane prima del suicidio del manager, in cui le ultime frasi suonano come un oscuro presagio. Gardini, sulla cui morte aleggiano i sospetti adombrati dalla moglie già un anno dopo la sua scomparsa, si suicidò la sera del 23 luglio 1993 a Milano, nel suo palazzo settecentesco, tre giorni dopo il suicidio di Gabriele Cagliari trovato morto in carcere con un sacchetto di plastica che avvolgeva la testa, e poco più di un mese dopo il ritrovamento del corpo di Sergio Castellari, che per vent’anni era stato direttore generale del Ministero delle Partecipazioni Statali. La morte di Gardini diventò un altro mistero d’Italia, perché nessuno sentì le detonazioni, la pistola risultò aver esploso due colpi e venne ritrovata su un comodino, a due metri da cadavere. La mano con la quale avrebbe dovuto premere il grilletto risultò negativa al test del guanto di paraffina.

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G. Garofano

Nelle settimane precedenti la morte di Gardini, la procura di Milano aveva stretto nella morsa i dirigenti di Ferruzzi. Il presidente della Montedison, Giuseppe Garofano, si diede ad un periodo di latitanza a Londra, prima di essere arrestato in Svizzera, dove doveva tenersi un summit con gli avvocati della Ferruzzi per decidere la strategia difensiva. Furono arrestati poco dopo CS e Sergio Cusani. Nelle settimane successive la morte di Gardini i resti della Ferruzzi furono divisi secondo un piano di Mediobanca tra i principali gruppi industriali italiani. La Fiat prese una importante partecipazione in Edison, Giampiero Pesenti rilevò la Calcestruzzi e la Heracles, gioiello del cemento greco; la Fondiaria Assicurazioni passò al gruppo Ligresti e le aziende agricole furono vendute a prezzi di molto al disotto del valore reale, come la Open Ground, 23.000 ettari nel North Carolina, venduta per 40 milioni di dollari. La distruzione del gruppo, dopo la morte di Gardini, si spinse fino a costringere gli eredi di Serafino Ferruzzi ad una resa irregolare che consentiva a Mediobanca di effettuare le operazioni di ristrutturazione senza correre rischi in caso di fallimento. Una vera e propria opera di killeraggio industriale, affidata a Maurizio Romiti, responsabile delle partecipazioni, che alla fine si rivelò un passo falso, spalancando le porte dell’inchiesta della procura di Ravenna, che portò alla scoperta dei fondi neri del gruppo, facendo emergere la questione diventata poi nota come la madre di tutte le tangenti.

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Gardini non è mai stato convocato dai magistrati del pool Mani Pulite, non fece in tempo, ma aveva saputo che il Gip Italo Ghitti stava per firmare la sua ordinanza di custodia cautelare, cosa che avvenne effettivamente alle 9.15 del 23 luglio. L’ordinanza riguardava, oltre Gardini, CS, Sergio Cusani, Giuseppe Berlini e Vittorio Giuliani Ricci, con l’accusa di falso in bilancio e finanziamento illecito dei partiti, a seguito della maxitangente di 152 miliardi prelevati dalla provvista di Domenico Bonifaci. Della ingente cifra rastrellata dai Ferruzzi per fare pace con i partiti, dopo lo tsunami causato da Gardini, nel tentativo disperato di salvare le sue aziende, 90 miliardi furono depositati sotto forma di CCT presso lo IOR, grazie a Luigi Bisignani, che creò il fondo Serafino, in onore al fondatore della Ferruzzi. L’ingente cifra avrebbe poi preso la strada dei conti cifrati in Lussemburgo e Svizzera, sparendo dai radar. Sergio Cusani restituì 35 miliardi.

Il processo sulla vicenda Enimont, conclusosi nel 2000, accerterà l’esistenza di un finanziamento illecito ai partiti, come risulta dalle dichiarazioni di CS al pubblico ministero in riferimento alla maxitangente Enimont del 1991:

“70 miliardi sono andati al Psi, nella persona del suo segretario politico, Bettino Craxi. Qualche decina di miliardi è stata versata alla Dc per il tramite del suo segretario politico Forlani. La restante parte della tangente è stata versata a vari personaggi politici che avevano avuto un peso nella definizione dell’affare Enimont. Qualche miliardo è andato a Cirino Pomicino, in relazione alla sua carica di responsabile del Cipi; qualche miliardo a Claudio Martelli, per la sua posizione favorevole alle logiche imprenditoriali della Ferruzzi e della Montedison nel settore della chimica; qualche miliardo a Franco Piga, per il ruolo dallo stesso svolto nella predisposizione del prezzo di cessione delle azioni Enimont; qualche miliardo a Gabriele Cagliari, nella sua qualità di presidente dell’Eni; qualche miliardo all’ingegner Alberto Grotti, vicepresidente dell’Eni. Altre somme di denaro che non ricordo sono state versate a Pompeo Locatelli e Vincenzo Palladino”. Mario Almerighi ( Tre suicidi eccellenti. Gardini. Cagliari. Castellari , Editori Riuniti, pp. 239)

Raul Gardini e Gladio

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A parlare della presunta appartenenza di Gardini a Gladio è Antonino Arconte, ex appartenente al corpo speciale Comsubin della Marina Militare (Matr. G-71VO155M) e gladiatore (non incluso nell’elenco ufficiale inviato al parlamento il 26 febbraio 1991 dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti). Arconte sostiene di aver vissuto per 15 anni da infiltrato in Unione Sovietica, Libia, Tunisia, Marocco, Vietnam, Cina, Portogallo. I suoi racconti hanno suggerito scenari inediti su diverse vicende tuttora oggetto di disputa storiografica, come nel caso del suo ruolo nella vicenda del sequestro Aldo Moro, alle missioni segrete in Libia e Medio Oriente. Nel suo libro, “L’ultima Missione – G71 e la verità negata”, Arconte riferisce che Gardini facesse parte di una Supergladio, nota anche come Super-SID, una sorta di servizio segreto parallelo, che sarebbe stato operativo per 15 anni, dal 1972 fino al 1987, composto da 280 militari altamente addestrati e una struttura civile parallela, la cosiddetta “Terza Centuria”, conosciuta anche come la divisione “Colombe”, una struttura che si occupava di raccogliere principalmente informazioni, della quale il manager ravennate faceva parte, grazie alle sue enormi conoscenze del mondo della finanza internazionale, sul sistema di finanziamento dei partiti e per i suoi rapporti economici con l’Unione Sovietica, con i quali era in grado di fornire informazioni sul PCI. La testimonianza di Arconte va ovviamente presa con cautela, ma vale la pena sottolineare che il ruolo di Gardini possa essere datato, per le caratteristiche che avrebbe avuto questa struttura segreta, a partire dal 1979, quando divenne effettivamente manager della Ferruzzi.

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Arconte racconta che avrebbe anche lavorato per un due mesi per la sicurezza e protezione dei silos di soia di proprietà della Ferruzzi a Mildre Grove, tra Baton Rouge e New Orleans in Mississipi, nel 1982, dove i beni del gruppo avevano subito un tentativo di sabotaggio. A bordo delle navi del Fermar del gruppo Ferruzzi, riferisce ancora il gladiatore, c’erano sempre appartenenti a Gladio a svolgere funzioni di sorveglianza e sicurezza. Antonino Arconte, che sostiene di aver incontrato Gardini anche a casa di Charles Bernard Moses, ritenuto un agente di collegamento tra la Gladio italiana e la Stay Behind USA, è stato anche firmatario, con un altro gladiatore, di un esposto, inviato il 18 Febbraio 2004 alla procura della Repubblica di Perugia, in cui si chiede di effettuare indagini su alcune morti sospette di appartenenti a Gladio, a partire dalla circostanza che Gardini si sarebbe suicidato lo stesso giorno in cui fu inviato alla Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo un esposto sugli episodi di persecuzione giudiziaria nei confronti di persone che testimoniavano della loro appartenenza all’Organizzazione Gladio. L’esposto sarebbe stato concordato con Raul Gardini stesso, con il quale i gladiatori avevano deciso anche la data di spedizione, avendo Gardini appreso l’imminenza della comunicazione giudiziaria effettivamente firmata il 23 luglio 1993.

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Gen. Jucci

A parzialissimo sostegno di questa suggestiva ipotesi ci sarebbe anche un episodio raccontato da Luigi Bisignani (pag. 124 Op. Cit.) a proposito della circostanza che a presentare Gardini a Bisignani, nel 1990, sarebbe stato il generale Roberto Jucci, con il quale il manager ravennate era in ottimi rapporti. Jucci, cognato di Andreotti, quando era colonello del SID fu incaricato di una missione segreta con la Libia di Gheddafi, nel 1972. L’operazione era finalizzata all’acquisto di 50 milioni di barili di petrolio a prezzi inferiori a quelli di mercato, in cambio la Libia avrebbe ricevuto 25,5 miliardi di lire di armi prodotte in Italia, su licenza americana.

Aldo Moro, per ovviare alle resistenze americane sull’operazione, si accordò con il libici per consegnare materiale in possesso dell’esercito italiano.Gli Stati Uniti chiesero che l’Italia acquistasse 45 miliardi di lire dell’epoca in armi americane più la concessione della Maddalena e di Lampedusa come basi militari USA. Jucci inoltre aveva stabilito rapporti con il mondo della destra extraparlamentare dai tempi del SIFAR, in collaborazione con il colonnello Vicini, il quale era il comandante del reparto guastatori del servizio che si addestrava in Sardegna, con disponibilità illimitata di esplosivi. Jucci e Vicini facevano capo all’Ufficio Alti Studi Strategici, sistemato a Palazzo Chigi, dove era insediato un uomo ombra di Andreotti, l’avvocato Filippo De Jorio, consigliere regionale DC del Lazio, nonché avvocato difensore ed amico di Junio Valerio Borghese nel processo per il tentato golpe “La Rosa dei Venti” (Stefania Limiti, L’anello della Repubblica, Chiarelettere, pag. 90-91 – Pietro Messina, “Il cuore nero dei servizi”, BUR, pag. 293-294; Miguel Gotor, “Il memoriale della Repubblica”, Einaudi, pag. 510). Il generale Jucci fu in predicato di diventare capo del SISMI, appena dopo la riforma dei servizi segreti, nel 1977, la sua candidatura contro il generale Miceli fu però ostacolata fin dal 1976 dalla campagna di stampa orchestrata dall’Agenzia OP di Mino Pecorelli, congetturando sulla parentela tra Jucci ed Andreotti, svelando il traffico di armi con la Libia.

Le dichiarazioni di Carmine Schiavone ed i rifiuti tossici dell’ACNA di Cengio

La recente desecretazione delle dichiarazioni rese da Carmine Schiavone nel 1997 alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul “Ciclo dei Rifiuti e delle attività ad esso connesse” rafforzano la conoscenza di alcuni passaggi già noti relativi alle procedure adottate per trasferire i rifiuti industriali, tossici e pericolosi, dal nord al sud, dove venivano interrati principalmente nelle discariche autorizzate, attraverso le regolari autorizzazioni concesse dalle province, oppure nelle discariche abusive.

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Carmine Schiavone data al 1988 l’origine della vicenda, per la parte riguardante il coinvolgimento del clan dei casalesi relativa all’interramento dei fusti di rifiuti tossici nelle cave abusive, dove le aziende del clan prelevavano i materiali inerti per il calcestruzzo ed il rilevato da utilizzare per i lavori dell’asse viario Nola-Villa Literno. I rifiuti sversati, tra cui anche quelli nucleari, sono genericamente descritti da Schiavone come scarti provenienti da industrie di vernici e pitture, concerie, ed industrie chimiche. Un particolare importante riguarda la procedura di fatturazione operata dalle società che gestivano le discariche, le quali facevano risultare sversati rifiuti che in realtà venivano interrati presso altre discariche o abusivamente, di modo da non occupare i volumi della discarica che aveva ottenuto l’autorizzazione. In particolare la discarica di Pianura, a Napoli, la Di.Fra.Bi. gestita dal connubio La Marca e Di Francia, secondo Carmine Schiavone, praticava questo “giro di bolla” per non occupare troppo la volumetria dell’enorme sversatoio che serviva una popolazione di 4 milioni di abitanti.

Nel caso della Di.Fra.Bi di Pianura, nella città di Napoli, la discarica (chiusa nel 1994), era situata in una grossa cavità formatasi con l’attività di estrazione della pozzolana. L’area conosciuta come l’oasi degli Astroni, i cui 6 invasi sono attualmente riempiti dai rifiuti, approssimativamente era estesa per 70 ettari. Gli invasi avevano profondità massime di 50-60 metri che arrivavano fino al di sotto della quota della campagna circostante, fino ad 30 metri di profondità. La discarica ha ricevuto prelaventemente, tra il 1950 ed il 1994, rifiuti urbani ed assimilabili; rifiuti speciali, tossici e nocivi per un 23% del fatturato totale, oltre a rifiuti ospedalieri, 5-10% del fatturato. Complessivamente la discarica di Pianura ha ricevuto rifiuti per un totale stimato tra i 50 e 70 milioni di mc. Nei rilevamenti effettuati sulle acque sotterranee, si è evidenziata la presenza significativa di Cloruri, Solfati, Azoto Nitrico e Fosfati, oltre a dati anomali di Ferro, Manganese e Magnesio nei pozzi a valle, sostanze che comunque esistono anche in natura per cui è tuttora dibattuta l’incidenza degli sversamenti nella discarica. Mentre La presenza massiccia di Tricloroetilene, un solvente usato fin dagli anni ’20 per l’estrazione di oli vegetali da piante quali la soia, o per la decaffeinizzazione, una sostanza rilevata in quantità tali per ritenere esserci un vera e propria “contaminazione generale dell’area” (Rapporto ANPA, Osservatorio Nazionale Rifiuti, del 2001), non lascia alcun dubbio sulla sua origine industriale, essendo stato rilevato a valle della discarica. Altre sostanze chimiche rilevate nelle acque di percolazione sono poi gli oli minerali e gli idrocarburi.

La discarica Di.Fra.Bi. il 1985 ed il 1996 è stata autorizzata a ricevere 730mila tonnellate all’anno di rifiuti urbani e 150mila tonnellate di speciali e tossici, tutti regolarmente documentati, tra cui “800.000 tonnellate dei rifiuti derivanti dalla bonifica dell’ACNA di Cengio”, una industria che produceva 374 tipi di composti chimici, compresi quelli per scopi militari non convenzionali. L’ACNA, all’epoca proprietà del gruppo Montedison, ha sversato decine di migliaia di tonnellate regolarmente fatturate anche nelle discariche di località Scafarea di Giugliano, di proprietà del pentito Gaetano Vassallo e nelle discariche Resit 1 e 2, di proprietà dell’avvocato Cipriano Chianese.

L’azienda chimica di Cengio, in provincia di Savona, ebbe un destino travagliato. Nel 1990, in seguito al fallimento della fusione Enimont, l’ACNA, con un fatturato in caduta libera ed una esposizione di 80 miliardi di lire, rimase al gruppo Eni, tornando quindi allo Stato. Per l’Eni non fu un grande affare ed il piano di ristrutturazione aziendale affidato all’Enichem concluse, nel 1991, che l’ACNA era irrecuperabile. Pesava inoltre l’eredità dell’azienda sull’intera Val Bormida, dove erano stati interrati un milione di tonnellate di rifiuti tossici ed inquinata un’area che si estendeva per 70 km.

In un contesto caratterizzato dalle proteste, anche spettacolari, degli ambientalisti bormidesi, che arrivarono a bloccare una tappa del Giro d’Italia per chiedere la chiusura della fabbrica e la bonifica ambientale, mentre iniziava il processo che metteva sotto accusa l’ACNA per inquinamento ambientale, la commissione Lopreno istituita dal ministero dell’Ambiente nel 1988 rilevò l’assoluta “incertezza circa la quantità e la qualità dei rifiuti prodotti dell’ACNA”. Tra le forze politiche della Val Bormida si era inoltre diffusa la voce che circa 400 tonnellate di scarti erano stati trasferiti dall’ACNA in Romania.

Quantità che fanno a pugni con le cifre dei conferimenti effettuati dall’ACNA nelle discariche di Pianura e Giugliano, centinaia di chilometri a sud dalla Val Bormida. I rifiuti finiti nelle dicariche camopane sono stati definiti come fanghi di risulta del materiale di bonifica dell’area dell’Acna di Cengio, come dichiarato su diversi documenti “ufficiali”. La discarica di Pianura, dove risultano sversate 800.000 tonnellate dei rifiuti dell’azienda chimica, ha chiuso definitivamente nel 1995, mentre la bonifica dell’ACNA di Cengio è iniziata solo dopo la battaglia legale che ha portato alla definitiva chiusura della fabbrica nel 1999. Una vittoria per gli ambientalisti della Val Bormida, il cui cuore pulsante, Renzo Fontana, non riuscì a vedere l’inizio dei lavori di bonifica, a causa di un incidente stradale in cui morì, l’11 settembre 2002.

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La questione ACNA, una delle più importanti battaglie ambientaliste condotte in Italia, all’epoca si incrociò mediaticamente anche con la vicenda della Karin B, la nave dei veleni che fece accendere i riflettori sul traffico di rifiuti dall’Europa verso l’Africa, portando a mettere sotto accusa l’intero settore della chimica italiana. La legislazione esistente all’epoca consentiva alle regioni ed agli organi centrali di autorizzare l’esportazione dei rifiuti di ogni tipo dai porti italiani tramite la formula del silenzio assenso, entro 30 gg. alla presentazione della richiesta. Con un fatturato di 49mila miliardi e 225 mila persone occupate e sotto accusa dalle organizzazioni ambientaliste per l’inquinamento ambientale, Giorgio Porta, presidente di Federchimica e vicepresidente della Montedison, in un articolo apparso il 22 settembre del 1988 sul quotidiano La Repubblica, diede i numeri della produzione industriale italiana, che ogni anno produceva 15-20 milioni di tonnellate di rifiuti industriali, di cui quelli della chimica corrispondevano ad 1 milione di tonnellate, la maggior parte delle quali “smaltita all’interno degli stabilimenti”, mentre la parte rimanente, circa il 5-6%, risultava tossica e nociva, appena 50.000 tonnellate all’anno del totale della produzione nazionale del comparto chimico, quindi, secondo il vicepresidente della Montedison dell’epoca, uomo di Raul Gardini.

 

 

Commenti all'articolo

  • Di francesco latteri (---.---.---.123) 10 novembre 2013 18:48
    francesco latteri

    Bellissimo, approfondito ed esaustivo. A me però - in un romanzo, ovviamente perché solo in un romanzo se ne può parlare come in "Romanzo Criminale" - risulterebbe che le trame di EniMont, abbiano anche altri risvolti oscuri e nominativi ancora non apparsi di personaggi che sarebbero tra i veri tessitori dell’affare, specie un politico che fu Deputato al Parlamento per l’ENI per ben 11 legislature e che sull’aereo di Enrico Mattei avrebbe dovuto esserci anche lui, che declinò all’ultimo istante ufficialmente per un malore della moglie. Ebbene i due personaggi, Gardini e Cagliari sarebbero state le personalità più opportune specie per profilo psicologico per portare a termine la vera impresa: due bei "Galli Cedroni" che ci credevano davvero, ciascuno per parte sua e perciò ideali. Invero Enimont fu una maxi rapina dei politici: fottersi le tangenti all’andata per farla, ed al ritorno per disfarla. Insomma la vera truffa italiana del secolo. Il personaggio da romanzo potrebbe dare solo la propria testimoninza e così finire come il primo pentito di Mafia in manicomio. Dobbiamo perciò restare al semplice Romazo. Di fantapolitica ovvio. Fino a prova contraria.

  • Di (---.---.---.206) 10 novembre 2013 19:27

    ...qualche giorno fa, in una udienza tenutasi nell’ambito del processo sulla cosiddetta "Trattativa Stato-Mafia", a Palermo, un collaboratore di giustizia, Vincenzo Onorato, ha rilasciato ai magistrati una dichiarazione che credo sia molto rilevante: "L’omicidio di Salvo Lima è il primo atto di guerra che Riina rivolge allo Stato, primo pezzo della lunga catena che poi porterà le istituzioni a trattare con la piovra. “I primi politici da eliminare erano Salvo Lima e Giulio Andreotti. Ma c’erano anche Calogero Mannino,Vizzini, i cugini Salvo, Claudio Martelli, Ferruzzi e Gardini”.

    il fatto che tra gli eventuali obiettivi potessero esserci anche Ferruzzi (Arturo? che nel 1992 era amministratore della Ferfin?) e Raul Gardini, confermerebbe l’ipotesi di eventuali rapporti con Cosa Nostra, almeno nel periodo preso in oggetto da questo articolo, che si concentra specificamente sullo scenario che ha fatto da sfondo al traffico dei rifiuti industriali, tossici e nocivi...

    Emiliano Di Marco
  • Di Gianni Morra (---.---.---.164) 25 ottobre 13:38

    ROBERTO (J)U.C.C.(I)

    di Aleth


    23.10.2024 + 25.10.2024


    Il generale jucci roberto, ex alto papavero del servizio segreto dei cc al tempo dei 55, di recente ha rilasciato intervista in cui asseriva di essere stato allontanato da Roma con un pretesto durante il sequestro Moro, di cui era amico e che avrebbe voluto salvare ma i cattivi piduisti etc. :

    https://www.open.online/2024/03/04/aldo-moro-roberto-jucci-francesco-cossiga/

    Ora : jucci è cognome rarissimo in Italia, con 14 famiglie in tutto e sole 6 attestate nel Lazio stando a questo sito che ho riscontrato generalmente attendibile :

    https://www.cognomix.it/mappe-dei-cognomi-italiani/JUCCI

    roberto jucci è di Cassino.

    Di Roma è od era invece jucci maria antonietta, classe 1948, nata a Roma ed ivi residente al 1982, commerciante e terrorista delle ucc (unità comuniste combattenti, gruppo terroristico scheinrosso attivo nella seconda metà dei ´70) :

    https://www.memoria.san.beniculturali.it/documenti-online/-/doc/detail/263/107%20%20volume%20CVII?keyword=

    p. 528.

    Statisticamente dunque, è infinitamente probabile, ben sopra sigma 2 , che il generale e la terrorista siano parenti. Ma di questo il roberto non parla nell´intervista, e nessuno glielo chiede.

    Le ucc annoveravano nei loro ranghi anche il genero separato del solito mancini giacomo patron di piperno e della gang di metropoli, molto vicina alle ucc le cui rapine servirono in parte a finanziare la nota "rivista" alias associazione a delinquere. lapponi era il marito separato di giuseppina mancini detta giosy o giusy, figlia di giacomo, pure lei implicata nel terrore scheinrosso ma presto insabbiata per via dell´ ìnclito papà criminale.

    Altro illustre esponente ucc fu panzieri fabrizio, uno dei due assassini di mantakas con lojacono, panzieri che nei ´70 venne avvistato nello studio di mancini in via del Babuino, e che figura tra i collaboratori del cerpet.

    A carico della jucci abbiamo rapina in armeria (531), detenzione e porto illegale di armi da guerra e comuni, esplosivi e munizioni, radio clandestine atte a intercettare la polizia, tentato sequestro in danno di campilli roberto (per il quale avrebbe dovuto servire da prigione il covo di Pian di Vescovìo dal kuk assurdamente attribuito a Moro), detenzione di carte d´identità false trovate perquisendo il suo appartamento, chi più ne ha (537 sq. + https://archivio.unita.news/assets/main/1980/10/26/page_005.pdf , l´Unità 26.10.80 p.5).

    È ora di chiedere al generalissimo, se questa maria antonietta è sua parente ; e se lo è, come sta sopra sigma 2, chiedergli come mai lui che dirigeva o quasi il servizio segreto dei cc non ne sapeva niente. E siccome costei fu individuata fin dal ´79 (la jucci colpita da mandato di cattura, risulta irreperibile al 10.9.79 : p.578 ; né trovo in rete, che fine abbia fatto : era ancora latitante al 26.10.80 stando a l´Unità supra) come mai il generale ha taciuto su questo legame per 45 anni.

    Mi sembra più interessante delle sue rifritture ipocrite e tardive sul caso Moro.

    Anche perché la carriera di jucci è costellata di ombre pesanti :

    https://www.agoravox.it/Lo-scandalo-Enimont-dietro-il.html

    „ ... un episodio raccontato da Luigi Bisignani (pag. 124 Op. Cit.) a proposito della circostanza che a presentare Gardini a Bisignani, nel 1990, sarebbe stato il generale Roberto Jucci, con il quale il manager ravennate era in ottimi rapporti. Jucci, cognato di Andreotti, quando era colonello del SID fu incaricato di una missione segreta con la Libia di Gheddafi, nel 1972. L’operazione era finalizzata all’acquisto di 50 milioni di barili di petrolio a prezzi inferiori a quelli di mercato, in cambio la Libia avrebbe ricevuto 25,5 miliardi di lire di armi prodotte in Italia, su licenza americana...

    Jucci inoltre aveva stabilito rapporti con il mondo della destra extraparlamentare dai tempi del SIFAR, in collaborazione con il colonnello Vicini, il quale era il comandante del reparto guastatori del servizio che si addestrava in Sardegna, con disponibilità illimitata di esplosivi. Jucci e Vicini facevano capo all’Ufficio Alti Studi Strategici, sistemato a Palazzo Chigi, dove era insediato un uomo ombra di Andreotti, l’avvocato Filippo De Jorio, consigliere regionale DC del Lazio, nonché avvocato difensore ed amico di Junio Valerio Borghese nel processo per il tentato golpe “La Rosa dei Venti” (Stefania Limiti, L’anello della Repubblica, Chiarelettere, pag. 90-91 – Pietro Messina, “Il cuore nero dei servizi”, BUR, pag. 293-294; Miguel Gotor, “Il memoriale della Repubblica”, Einaudi, pag. 510). Il generale Jucci fu in predicato di diventare capo del SISMI, appena dopo la riforma dei servizi segreti, nel 1977, la sua candidatura contro il generale Miceli fu però ostacolata fin dal 1976 dalla campagna di stampa orchestrata dall’Agenzia OP di Mino Pecorelli, congetturando sulla parentela tra Jucci ed Andreotti, svelando il traffico di armi con la Libia.“

    Si deve forse dunque alla parentela potente con roberto jucci ed andreotti, la latitanza dorata di maria antonietta jucci terrorista ucc, almeno fino a fine 1980 ?

  • Di Emiliano Di Marco (---.---.---.) 25 ottobre 16:07
    Emiliano Di Marco

    Caro Gianni, di questa presunta parentela non ne so granchè. Tuttavia, non sarebbe l’unica. Ci sono stati diversi esponenti della costellazione della lotta armata in Italia che avevano illustri parentele. Non solo tra le forze armate. Ci sono state anche delle aree grigie. Il caso più famoso è quello del figlio di Donat Cattin, sulla cui vicenda è stato pubblicato un libro molto interessante, "Il figlio terrorista. Il caso Donat Cattin e la tragedia di una generazione", di Monica Galfrè, Einaudi editore.

    Io concordo abbastanza con lo sfondo in cui viene collocata la vicenda. C’è una questione generazionale che attraversa la storia della lotta armata in Italia, in cui il l’evocazione del parricidio, come conseguenza di una resa dei conti in un paese che non riusciva ad incamminarsi sulla strada della modernità, come nella vicenda Moro, è una chiave di lettura da non sottovalutare.

    Ci sono stati molti brigatisti che venivano da famiglie di destra, o tradizionali. Ci sono stati anche recentemente casi di persone che avevano parentele molto strette con uomini e donne che lavoravano con i servizi, o che appartenevano ad una sorta di "borghesia nera". 

    Si possono fare tutte le ipotesi che si vuole. Ma non va esclusa la questione generazionale. Almeno per gran parte di loro, il fascino della lotta armata era legato a profonde vicende personali. Non dimentichiamo che erano poco più che ventenni. Questo dato viene spesso trascurato, ma sarebbe utile ricordare come eravamo a vent’anni.

    Poi, in qualche caso, è possibile che dette parentele abbiano prodotto comportamenti ambigui. Un come quando si cerca un dialogo e si lanciano dei segnali, quando si intuisce quale percorso è più compatibile per riuscire ad attirare lo sguardo. Perchè nella mediaticità del terrorismo, c’è una questione a proposito dello sguardo che si vuole attirare. 

    Magari, coloro che hanno capito come interpretare il loro ruolo in chiave sistemica, hanno avuto qualche privilegio. O l’hanno fatta franca. Ma non per la parentela con un singolo, ma per la sistemicità che hanno interpretato, anche inconsapevolmente...

  • Di Gianni Morra (---.---.---.243) 25 ottobre 18:43

    Caro Emiliano, grazie per l´attenzione e la risposta.

    Il punto concreto è, da parte mia, non solo una possibile connivenza tra roberto jucci ed il terrorismo scheinrosso tramite questa maria antonietta, SE parente, come eventuale, possibile infiltrata di regime nelle ucc ; ma il punto è, accertata eventualmente la statisticamente probabilissima parentela tra i due e quindi con andreotti, se roberto jucci e/o lo stesso andreotti abbiano favorito la latitanza della terrorista, di cui non ho trovato in rete alcuna notizia successiva al 26.10.1980 quando L´Unità la dà ancora latitante. Analogamente a come la madre di donat cattin ne favorì la breve latitanza iniziale in francia. Il terrorismo scheinrosso in italia è stato fin dall´inizio favorito, anzi creato finanziariamente ed ideologicamente, da doppiogiochisti di matrice psi "autonomista", cioè anticomunista : landolfi, mancini, simioni, toni .egri e quant´altro. Il problema si pone anche per molti altri terroristi figli di papà, come adriana faranda, piperno, pirri ardizzone, casimirri, lojacono etc. : furono "parricidi" come dici, o almeno qualcuno di essi, fu infiltrato in combutta col padre ? Ed anche se furono parricidi, certamente poi i potenti genitori ne favorirono la latitanza in certi casi, vedi lojacono e casimirri.

  • Di Emiliano Di Marco (---.---.---.) 25 ottobre 19:46
    Emiliano Di Marco

    Il problema dell’infiltrazione è stato affrontato anche da alcuni dei più importanti esponenti delle BR. Franceschini ne ha parlato, in maniera molto chiara, e tuttavia non ha mai ridotto l’esperienza delle BR a qualcosa di manipolato. C’erano, li hanno visti, o percepiti, personaggi ambigui, e loro stessi si chiedevano se certe vicende non fossero frutto di manipolazione. 

    Ma non è che si può ridurre tutta la vicenda a questo. Il punto non è: chi ha aiutato le BR (o altre organizzazioni) a diventare quello che sono diventate. Se uno si mette su questa direttrice trova una infinità di soggetti, organizzazioni, partiti, interessi, poteri, potenze (a livello scalare: dal locale al globale), etc. che potevano vedere con favore questo fenomeno.

    Del resto, la storia delle rivoluzioni è fatta anche di questo. Lenin non si fece aiutare dai tedeschi per ritornare in Russia, con il famoso treno blindato? E i tedeschi, che erano in guerra con la Russia, non erano interessati a liberarsi di un fronte? Certo che fu aiutato. 

    Quando Franceschini disse "Moretti si credeva Lenin", non dice qualcosa di ben preciso?

    Cmq, per ritornare alla tua domanda. Qualcuno dei nomi che hai citato ha pagato con il carcere, a lungo. Se c’è qualcuno che è stato favorito nella latitanza, non è tra quelli che stanno in Italia, o hanno fatto decenni di carcere.

    Ma favorire una latitanza, non è una questione che può fare un singolo, per proteggere un parente. E’ una cosa più complessa. Una lunga latitanza, come dimostrano quelle dei mafiosi, può essere fatta con un livello di protezione statale.

    Uno Stato non regala una latitanza a qualcuno solo per proteggere il buon nome di un ufficiale, o di un politico.

    Quando poi la latitanza è internazionale, gli Stati che la proteggono devono essere almeno due...

  • Di Gianni Morra (---.---.---.243) 25 ottobre 22:32

    Certo che non tutti i bierre erano infiltrati : ma i noninfiltrati erano manipolati dai primi. Franceschini ad esempio era genuino, ma nonostante le sue profonde riflessioni autocritiche degli ultimi decenni, non ha insistito abbastanza su chi pagasse la clandestinità sua, di curcio e della cagol etc. : inizialmente era simioni, sicuramente agente della cia, proveniente dai ranghi del psi autonomista=anticomunista. Poi avevano feltrinelli, quello era un fanatico genuino, e siccome era miliardario sborsava. Ma senza i soldi e l´ideologia di simioni, le bierre non sarebbero mai nate. E simioni manda la cagol da roberto dotti, sodale di edgardo sogno, a consegnargli ingenuamente le schede di tutti i militanti della prima ora tranne Franceschini che si rifiuta di compilare. Potrei continuare fino a domattina : le bierre sono state create e dirette dal potere atlantista, manipolando la rabbia di centinaia di giovani genuinamente anticapitalisti, e trasformandola in un´orgia sanguinaria antiPCI ed antimorotea che ha distrutto il paese. La rivoluzione russa non sarebbe mai nata non solo senza i tedeschi, ma anche e soprattutto senza wall street : trotsky era a new york nel 1916 col cappello in mano, generosamente riempito dalla peggior feccia finanziaria capitalista : perché ? Ancora una volta, per distruggere la concorrenza economica del riformismo zarista, che preoccupava rockefeller soprattutto in campo petrolifero : vedi A.C. Sutton, Wall street and the bolshevik revolution, gratis online. Poi quando lenin divenne riformista e introdusse la nep, fu estromesso dopo uno strano attentato lasciando il posto al duro e puro stalin che mise in mano la russia al capitale occidentale, ford e agnelli in testa.

    Quando qualcuno ti paga, ti paga per i suoi interessi, non per i tuoi. Le rivoluzioni costano, e più sanguinarie sono, più il capitale le sfrutta a suo vantaggio.

  • Di Gianni Morra (---.---.---.243) 25 ottobre 22:35

    Quanto ai due stati che proteggono le latitanze dorate, a tutt´oggi, di centinaia di criminali degli anni ´70, su tutti svetta la francia della dottrina mitterrand (un ex fascista cagoulard e vichysta, riciclatosi resistente dopo la liberazione e naturalmente scheinsocialista) : anche qui fin da allora, per favorire la destabilizzazione dell´italia come concorrente economico, oltre che in chiave antiPCI.

  • Di Emiliano Di Marco (---.---.---.) 25 ottobre 22:51
    Emiliano Di Marco

    Io personalmente i dubi li ho risolti in un altro modo. Se uno vuole vedere gli aspetti più torbidi della storia italiana recente, ha ampia scelta. Ti assicuro che certe interpretazioni che ho letto, secondo cui sarebbe stato un settore del PCI, legato all’URSS, a gestire le BR, sono credibili come quelle che sostengono che erano una cretaura della CIA, o degli inglesi, o dei francesi, o degli israeliani, o addirittura dei tedeschi. C’è anche l’interpretazione altrettanto credibile che in realtà le BR erano manipolate da ex agenti della CIA defenestrati dopo gli scandali seguenti al Watergate, ed al servizio di chissà quali potenti compagnie private con interessi nel petrolio, e trasversali al punto che questi avevano campi di addestramento in Libia.

    Del resto, sono passati più di 40 anni, e chi voleva riscrivere la storia ha avuto ampia disponibilità di tempo per fabbricare delle versioni alternative.

    La mano dei servizi si vede sicuramente dalla quantità di racconti sulle BR, che non arrivano da nessuna parte. La verità è che esiste una sola storia, sul sequestro Moro, che è il climax del lungo ’68 italiano, ed è il memoriale Morucci, che è stato concordato con la magistratura edi i servizi. Quella è la verità di Stato. E se vedi, è lo Stato che nega qualsiasi versione alternativa a quella. 

    Non c’è da stupirsi. Del resto, la storia delle BR (e della lotta armata) si può comprendere solo se si considera l’anomalia italiana. Con un sistema politico bloccato. Un PCI che rappresentava l’alternativa culturale in un paese bigotto e baciapile, ma che non poteva governare. Tutto questo, a nemmeno 30 anni dalla fine del fascismo. 

    Quando ero giovane, un decennio mi sembrava un’eternità. Ma oggi, ripensando ai ricordi di trent’anni fa, che mi sembrano avvenuti ieri, mi rendo conto di come il ricordo della guerra fosse così vivo negli anni 60 e 70.

    Per cui, quello dice Franceschi, va letto con attenzione. Perchè è la verità. Parte delle BR veniva da famiglie che erano state partigiane, che erano comuniste. Ed ritenevano di non ancora chiuso i conti con il fascismo.

    Se il nostro paese si fosse incamminato sulla strada di un riformismo di tipo europeo continentale, con un partito comunista più debole, ed un vero partito socialista, forse si sarebbe evitata una tragedia come la lotta armata.

    Ma certamente, se qualcuno pensa che Moro è morto solo per mano delle BR, non compreso quello che è successo nei decenni successivi.

    Con Moro, muore l’illusione italiana di avere una politica estera autonoma.

    Quindi, se c’è stata manipolazione...ad essere manipolati furono in tanti. Anche chi stava dalla parte del potere...

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