di
Franco Laner
Mauro Zedda mi segnala una memoria di
Paglietti-Mulas “Statica ed estetica, architetture isodome e
bicrome in età nuragica” apparso nel n. 8 di Layers,
archeologia, territorio e contesti dell’Università di Cagliari
dello scorso marzo 2023 e mi chiede di esprimere un’opinione, pur
sapendo che quando si parla di sacro dei nuraghi la penso
diversamente in quanto tutti immaginano il sacro legato alla
religione e così i nuraghi diventano templi o luoghi di culto.
Il sacro esiste anche senza la
religione ed è quanto ho cercato di sostenere nell’ultimo libro
che ho scritto, Nuraghi sillabe del cosmo, pubblicato due mesi
fa da Agorà nuragica
Ebbene mi sono sottoposto alla
lettura-tortura della memoria, a partire dal titolo Statica ed
Estetica. Di statica non c’è una riga esplicativa in
relazione all’isodomia e anche il lessico della memoria denuncia
l’ignoranza degli statuti di base della statica strutturale. Si
parla ad esempio di trazione negli stipiti che sostengono
l’architrave d’ingresso del nuraghe, che al contrario sono
soggetti a compressione. Un solido snello compresso potrebbe generare
tensioni di trazione, ma non c’è nulla di più tozzo degli stipiti
di un nuraghe! Ricorre l’espressione “tenuta statica” e
“garantire maggior staticità al nuraghe”: mica si muove! Non è
più semplice, resistenza e/o maggior sicurezza? Scrivere “durabilità
nel tempo” (la durabilità di un’opera è la caratteristica di
mantenere le qualità iniziali nel tempo) è l’equivalente
ridondante di scrivere “bella calligrafia” (kallos = bello).
Anche l’altra parola, estetica,
è fuori luogo, usata, come intuisco dalla lettura del testo, come
sinonimo di bellezza, anzi come sinonimo di decorazione.
Estetica è la branca della filosofia
che si occupa della percezione del fenomeno artistico e
dell’esperienza sensibile del bello. Proprio perché settore della
filosofia, ha una lunga storia, declinata appunto con quella della
filosofia, particolarmente trattata nei due ultimi secoli con
l’idealismo tedesco, ma anche dai contemporanei Adorno, Benjamin, i
nostri Croce e Cacciari e tanti altri.
Quando studiavo architettura, tutti
conoscevano bene due regole, pena la bocciatura. La prima che non si
doveva mai usare l’aggettivo estetico. La seconda che, alla domanda
sul perché di una scelta compositiva non bisognava mai rispondere
“perché mi piace”. Le scelte andavano essere motivate e
sostenute, senza tirare in ballo categorie generiche, tipo “ognuno
ha i suoi gusti”.
Ho premesso queste osservazioni perché
il titolo mi ha subito attratto: pensavo infatti di imparare qualcosa
sia sulla statica delle murature a secco, sia su una categoria
estetica dei nuraghi. Il titolo è dunque fuorviante e nulla sarebbe
cambiato se statica ed estetica non fossero state nominate.
Il senso dell’articolo invece è
assai più modesto: partendo dall’asserzione che in alcuni nuraghi
c’è il ricorso all’isodomia e alla bicromia, particolari
costruttivi propri dei monumenti nuragici a destinazione sacra, come
fonti e pozzi, giocoforza allora è desumere che anche i nuraghi
appartengono al sacro. Dovrei gioire, perché sono trent’anni che
sostengo questa tesi e prima di me, con altre motivazioni, altri
studiosi a cominciare dall’amico carissimo Massimo Pittau. Ma per
dire che appartengono al sacro non occorre scomodare illustri
precedenti, basta chiederlo ad un pastore che ti risponde col buon
senso dicendo che non ha mai pensato che fossero fortezze, perché
non sarebbero serviti né per attaccare, né per difendersi e
tantomeno per abitarci. Meglio edifici religiosi, anche se
riduttivamente intesi.
Il problema comunque non è quello di
escludere una funzione profana, ovvia, bensì definire il sacro,
altrimenti si intendono templi o luoghi per il culto, come ho scritto
sopra. Attenzione, sto parlando della genesi dei nuraghi, del loro
atto originario, non di funzione posteriori.
La tesi dei due autori – dovrei
essere compiaciuto visto che finalmente due archeologi prendono le
distanze dal nuraghe-fortezza, o reggia abitativa, o altre
patologiche destinazioni – pur con grande timidezza e cautela,
sostiene che i nuraghi siano costruzioni sacre, forti anche di una
recente memoria dell’archeologo scozzese Leighton continuamente
citata, in cui si sostiene che i nuraghi appartengono, appunto, al
sacro. Comunque sia, i due archeologi isolani si mettono di traverso
nell’atavico percorso taramellilliano che fa acqua da un secolo,
portando però una prova per me alquanto risibile e debole a favore
della sacralità. Intanto l’isodomia nei nuraghi non è molto
diffusa e ancor meno la bicromia. Se la prova fosse sostenibile
potrei affermare che i nuraghi che non hanno isodomia o bicromia, non
hanno funzione sacra e chiari monumenti sacri, come pozzi e fonti,
privi di isodomia o bicromia, non sono sacri, ma costruiti solo per
conservare o captare acqua per uso utilitaristico.
L’osservazione che costruzioni con
decorazioni non abbiano funzione militare mi pare comunque
un’osservazione condivisibile. A Marte infatti appartengono altri
caratteri, maschi e asciutti, mentre a Venere è data la grazia e la
decorazione.
Sulla presunta “estetica” dei
nuraghi, per usare il pessimo aggettivo degli autori, mi defilo
immediatamente. I nuraghi per me non sono architettura, sono
semplicemente tettonica e non aggiungono arché, valenza
artistica al volume che pure modifica lo spazio. Per essere definita
architettura un’opera deve avere ben altri requisiti. La parola
architettura è composta da arché e tecton, ovvero
coesistono due aspetti, quello artistico e quello tecnico. Nei
nuraghi c’è solo l’aspetto tecnico-costruttivo con qualche
eccezione, ad esempio trovo architettura nello splendido raccordo
ellittico fra l’entrata e la tholos,del nuraghe Is Paras di Isili,
oppure nella concezione del Losa o del santu Antine. All’
architettura, alla grande architettura nuragica, appartiene senza
dubbio il Pozzo di S. Cristina di Paulilatino o il Predio Canopoli di
Perfugas. Anche la stele e l’esedra di alcune TdiG sono per me
architettura. Tutte queste opere emozionano e l’architettura è
appunto arte, che appartiene alla sfera dello spirito.
Le nostre città sono piene di
edilizia, ma poca architettura. Ancora, per esemplificare, non si può
confondere un cuoco con un rosticcere, la poesia con la scrittura.
Insomma Salieri non è Mozart!
Come l’estetica, anche
l’architettura, è una parola usata in modo improprio e svuotata di
contenuti alti, volgarmente appiattita.
Al di là di questi pensieri alla fine
mi preme esprimere il parere sulla relazione isodomia/ concezione
strutturale che l’articolo non affronta, anche se ne dichiara
l’esistenza.
Le murature a secco di pietra, come
tutti sanno, sono così definite perché non c’è presenza di
legante. Su questo argomento, come dirò meglio in un prossimo
articolo a cui vorrei dedicarmi, c’è pochissima letteratura,
perché non interessa praticamente a nessuno, essendo una tecnologia
inutilizzata e priva di futuro. Potrebbe essere utile in caso di
restauro o consolidamento. Purtroppo le gare, le rare gare per la
conservazione o valorizzazione dei monumenti a secco non vengono
vinte dalla competenza, bensì dall’offerta economica o dagli
esperti di cemento armato e/o resine varie.
L’opus murario a secco è stato
trattato da autori come Giovannoni, Lugli, Choisy e Adam. Ultimamente
anche da Giulio Magli. In comune, gli autori citati introducono
classificazioni di aspetto, morfemiche. Io preferisco una
classificazione tecnemica, ovvero che dipende dalla concezione
strutturale sottesa. Ad esempio. L’isodomia, tessitura di elementi
parallelepipedi in filari paralleli e perfettamente levigati e
combacianti, è una muratura a secco, ma il comportamento strutturale
è assai affine ad una muratura con malta, perché le tensioni di
trazione orizzontali (una muratura non subisce solo schiacciamenti e
deformazioni verticali che dipendono dal modulo E di elasticità, ma
anche tensioni di trazione orizzontali che dipendono dal modulo G
(elasticità trasversale). La malta ha infatti il compito di
contrastare le trazioni orizzontali. Questo stesso contrasto è
svolto dall’attrito che si manifesta nella struttura isodoma.
Perciò dal punto di vista tecnemico non c’è alcuna differenza fra
una muratura con malta e una a secco isodoma.
Nell’opera
poliedrica la trasmissione del flusso delle tensioni che si ingenera
nella muratura avviene in modo concentrato, non diffuso come nelle
murature con malta o isodome, ma ci sono murature poliedriche, quelle
in coazione, che si comportano similmente alle murature con malta.
Affinché
i piani di posa dei conci isodomi siano perfettamente planari, è
necessaria la levigatura, più facile e agevole nelle pietre tenere,
come il calcare, che ha colore diverso dalla trachite o basalto.
L’isodomia,
data da almeno due corsi, introduce in una muratura poliedrica una
cordolatura o listatura, in pratica cerchia la muratura, conferendo
un forte presidio strutturale nei confronti delle tensioni
orizzontali.
Capisco
che tale visione sia complicata e presuma un lessico specialistico e
una spiegazione meno sintetica. Perciò tornerò sull’argomento. Ma
quanto sopra basti per spiegare che il rapporto
isodomia/resistenza/decorazione se appena si approfondiscono i
tecnemi e non solo i morfemi (ciò che appare) non può portare a
conclusioni del tipo: Conseguentemente e, per coerenza con quanto
fin’ora descritto in letteratura, dovremmo estendere il concetto di
“sacro” anche all’edificio nuraghe. Inoltre è stato
evidenziato come tali soluzioni facciano parte del nuraghe fin dalla
sua progettazione e come la resa architettonica non risponda sempre a
finalità statiche ma, più probabilmente, ad una resa estetica del
monumento invitandoci a riflettere sul significato di tali bicromie:
forse i colori evocano elementi naturali quali l’aria, la terra, il
fuoco.
Mi
scuso se irrido all’ultima frase, ma Empedocle ha ancora da venire
e comunque alle radici di tutto per la filosofia greca (anche per i
nuragici???) ci sono quattro elementi, non tre: manca l’acqua nella
resa estetica e cromatica ipotizzata nei nuraghi. I colori dei
quattro elementi: rosso (fuoco), giallo (aria), verde (terra),
celeste (acqua) stento comunque a vederli nei nuraghi, ma ciò
dipende dalla daltonismo che dovrò aggiungere ai tanti acciacchi
propri della mia anagrafe. O, peggio, ho dimenticato il senno in
qualche luogo recondito e le solite questioni anagrafiche non me lo
fanno ritrovare.
Cosa
ho capito alla fine: che è meglio non pisciare fuori dal vaso,
ovvero, meno prosaicamente, ognuno si attenga alla propria
disciplina, come mi ha ben raccomandato Pittau: parla di nuraghi con
la tua disciplina, senza sovrapporti agli archeologi. Gli archeologi
viceversa parlino con l’archeologia, non sostituendosi a storici
delle costruzioni o ad architetti o altri cultori. Pittau ha
dimostrato che i nuraghi non sono fortezze con la sua disciplina, la
linguistica!
L’interdisciplinarietà
necessaria all’archeologia non si ottiene facendo supplenza, ma
confrontandosi con gli specialisti delle altre discipline, altrimenti
si corre il rischio del ridicolo.
In
un recente Convegno, Gergei novembre 2023, un archeologo per
avvicinare gli ascoltatori alla cultura costruttiva dei nuraghi ha
parlato della triade vitruviana: firmitas, venustas e utilitas.
La firmitas non si discute: i nuraghi hanno quattromila anni e
molti hanno forato la coltre dei secoli giungendo praticamente
integri fino a noi. Sulla
venustas il discorso si fa più difficile e lo dimostra
anche l’articolo ora analizzato. Per me infatti i nuraghi, per le
ragioni sopraesposte, non sono architettura, bensì tettonica.
Ma
è sulla utilitas che l’archeologo neo architetto è
inciampato clamorosamente, perché capiva che non poteva parlare di
fortezza o reggia di re pastore e ha balbettato qualcosa sulla
polifunzionalità del nuraghe, in pratica sacro e profano assieme, ma
non ha salvato né capra, né cavoli!
In
conclusione.
Finalmente
gli archeologi non parlano più di funzione militare dei nuraghi e
seppur timidamente si stanno spostando sul sacro, ancora difficile da
declianare.
Io
ho trovato molte risposte nei lavori degli storici delle religioni,
Mircea Eliade in particolare, letture che caldamente consiglio ai due
autori.
Infine
un accenno alla bibliografia. Per me la bibliografia deve citare le
fonti ispiratrici di una memoria e dei risultati ottenuti. È, per
così dire, un servizio che va prestato ad altri ricercatori
sull’argomento di comune interesse. Ancora, è una forma di
riconoscimento ad autori che hanno sorretto e spesso ispirato la
propria ricerca. Nel nostro caso, in una memoria in cui viene pur
sommessamente sostenuto che i nuraghi hanno funzione sacra e non
militare, viene citata una sola memoria di studiosi che sostengono
tale tesi e che guarda caso, non è né sardo, né italiano, ma un
archeologo scozzese! Se dovessi elencare chi ha sostenuto per
cent’anni la tesi militare, dopo Taramelli e Lilliu parlerei di
Contu, Ugas, Tanda, Atzeni, Fadda, Lo Schiavo, Perra Moravetti,
Pitzalis, Usai, Cicilloni, Campus, ecc. ecc., cioè tutti gli
archeologi dell’Accademia e della Soprintendenza sarda, grandi e
piccoli, che si trovano nella bibliografia di Mulas e Paglietti e che
hanno fatto carriera, mai mettendo in crisi la sciocchezza del
nuraghe-fortezza. Chi ha sostenuto l’appartenenza al sacro, non è
archeologo, bensì linguista, architetto, ingegnere, astronomo,
archeoastronomo, geologo, ecc.. Nessuno viene citato. Ma appena un
archeologo, Leighton appunto, scrive la memoria citata e saccheggiata
dagli autori, viene citato.
In
altre parole solo un archeologo poteva attuare il cambio di
paradigma. Questa constatazione salva, se vogliamo, l’articolo,
perché, pur con motivazione molto sofisticata, consente finalmente
ad altri due archeologi di schierarsi, seppur flebilmente.
La
cosa a me fa un po' pena, ma così funzionano le cose.